Lotte per la terra

Le campagne lametine nel secondo dopoguerra tra miseria e sfruttamento.

Proprio nel periodo in cui, in seguito all’eccidio di Melissa, venivano varati i provvedimenti governativi di riforma agraria e finivano gli assalti ai latifondi, divenne protagonista delle lotte contadine il territorio nicastrese con le occupazioni delle terre coltivate. Esse ebbero un’importanza e un ruolo diverso e più avanzato rispetto ai tipi e alle forme di lotta finora condotte in Calabria. In particolare, esse, si differenziavano nettamente dalle lotte condotte sul latifondo crotonese. Da questo punto di vista, il movimento nicastrese si colloca fuori dal ciclo storico chiusosi con Melissa e dall’attualità della linea dei comunisti. La sua ‘contraddizione’ consiste nel fatto che esso pose una serie di problemi di tipo moderno in contrasto con tutta una visuale arcaica della questione agraria e degli stessi decreti Gullo che, rispetto alle rivendicazioni nicastresi, rivelavano la loro arretratezza e limitatezza in quanto con essi si perpetuava un’immagine del contadino semplicemente come soggetto affamato di terra.

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Occupazione fondo Arcomanno (Maida, 10/10/1946)

Per potere meglio comprendere l’atteggiamento peculiare del movimento nicastrese, il suo valore storico, sociale e culturale oltre che la sua specificità politica, è necessario inquadrarlo nella particolare struttura economico-sociale del luogo, esaminando in particolare la struttura agraria, i rapporti di produzione e la composizione di classe nelle campagne del nicastrese. Nel dopoguerra, il territorio agricolo calabrese si articolava in due diverse realtà economiche e sociali, ciascuna con caratteristiche strutturali particolari e ben definite. Infatti, ad una Calabria agricola del latifondo incolto o a coltivazione estensiva si affiancava quella delle pianure costiere e irrigue coltivate, caratterizzate da un’agricoltura di tipo intensivo. La prima era rappresentata prioritariamente dal crotonese, la seconda essenzialmente dalla piana lametina. Nel crotonese la proprietà fondiaria era concentrata nelle mani di pochi proprietari. Basti pensare che i noti agrari Baracco e Berlingieri possedevano da soli ben 30.635 ettari di terreno. Per rendere l’idea, si diceva allora che il treno che da Taranto passava per Crotone, transitava per mezz’ora nella tenuta di caccia del barone Baracco.

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Manifestazione di lavoratori a Nicastro

Queste estese proprietà fondiarie erano utilizzate o come pascolo transumante o come riserva di caccia da parte dei proprietari assenteisti che quasi mai si presentavano come conduttori o imprenditori, vivendo in città, lontani dalle loro proprietà. Queste proprietà venivano date in affitto e subaffitto con contratti annuali o al massimo biennali a contadini che non avevano perciò alcun interesse a valorizzarle proprio perché il rapporto era precario. Infatti, le estensioni di terreno da coltivare erano piccole e i contratti di anno in anno erano diversi. In queste condizioni i contadini non avevano nessun vincolo che li stringesse alla terra dei padroni in quanto la loro posizione restava sempre quella dei nullatenenti. Ne derivava un carattere prettamente improduttivo e parassitario a queste terre di latifondo che erano completamente incolte o mal coltivate. I decreti Gullo perciò potevano trovare piena attuazione in questa Calabria cosiddetta ‘nuda’. Infatti, in questa realtà, requisire la terra incolta ai latifondisti assenteisti e assegnarla alle cooperative dei contadini voleva dire dare alle popolazioni una fonte di sostentamento di vitale importanza. Nel nicastrese, invece, la situazione era completamente diversa. Qui non c’era latifondo incolto, ma terre coltivate (la cosiddetta ‘Calabria alberata’). Da uno studio di Giuseppe Medici, professore della Regia Università di Torino (relazione del 4 gennaio 1938 al Ministero dell’agricoltura), risultavano i seguenti dati sulla piana di S. Eufemia. Essa si estendeva dal comune di Curinga (a Sud) fino a Marcellinara (ad est) e sino a Nocera Terinese (a ovest) e comprendeva in tutto 10 comuni.

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Manifesto sull'occupazione di terre

37 soli proprietari possedevano 4287 ettari di terreno, mentre altri 4613 proprietari ne possedevano complessivamente 2627. Cioè i primi possedevano in media 116 ettari di terreno per ciascuno, mentre i secondi ne possedevano in media mezzo ettaro.

Per Nicastro, 28 grandi proprietari si godevano il frutto di 1783 ettari, cioè in media 54 ettari ciascuno; 5 di questi avevano, ciascuno, vaste tenute di estensione superiore a 300 ettari; altri 94 possedevano 574 ettari, cioè in media più di 5 ettari a testa; infine 3268 possedevano 2043 ettari, cioè in media meno di un ettaro a testa. Pressoché analoga era la situazione negli altri comuni. Tale sperequazione era la causa della grave miseria della gran massa dei contadini. Il piccolo proprietario, d’altra parte, era costretto a vendere subito e a qualunque prezzo i suoi pochi prodotti, mentre il grande proprietario poteva attendere per la vendita il momento più propizio. Inoltre, il piccolo proprietario vedeva sempre insidiato il suo piccolo pezzo di terra dal pericolo di doverlo vendere perché un cattivo raccolto o una disgrazia lo mettevano in condizione di non poter far fronte ai suoi impegni. In questo modo, i grandi proprietari trovavano il sistema di arrotondare ed estendere le loro già pingui proprietà. Prima del 1860 esistevano nella zona vasti feudi ecclesiastici appartenenti al vescovo, ai conventi e alle parrocchie. Quando, con la legge del 7 luglio 1866, vennero espropriati tali beni, furono divisi in tre parti: una fu venduta per i bisogni dello Stato, una venne data ai comuni come loro patrimonio ed una, infine, fu distribuita ai contadini poveri. I terreni dati ai comuni e ai contadini andarono a finire quasi tutti in mano ai grossi proprietari che trovarono il modo di usurpare i primi ed acquistare per pochi soldi i secondi. Infatti, molti contadini, non potendo vivere col ricavato delle loro piccole quote, preferirono venderle per pagarsi il viaggio per emigrare in America.

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Documento

Nel 2° dopoguerra, il territorio nicastrese risultava articolato in grandi proprietà organizzate in aziende e in una miriade di piccole proprietà ap¬partenenti a piccoli coltivatori alcuni dei quali le avevano acquistate durante la politica agraria del fascismo. Queste piccole proprietà erano coltivate a vigneti i cui proprietari erano esposti ai ricatti dei grossi commercianti che si accaparravano l’uva. Le grandi aziende, invece, erano costituite da oliveti e da altri terreni che venivano coltivati a rotazione annuale. Queste aziende appartenevano a note famiglie di agrari: i baroni Nico¬tera Severisio, il barone Alberto Statti, la marchesa Franceschina d’Ippoli¬to, il marchese De Luca, i De Medici, Quintieri ecc. Queste aziende erano definite “efficien¬ti” e “coltivate”. Ma si trattava di un’efficienza arcaica. Mancava ogni tec¬nica moderna di coltivazione. Niente macchine agricole, niente analisi del terreno, niente concimi. Inoltre: assenteismo e parassitismo dei ricchi pro¬prietari, vecchie chiusure ‘mentali’, mancanza di conoscenza del mercato, nessuna tipizzazione dei prodotti. L’unico intervento era la zappa del brac¬ciante e non l’aratro che penetrasse profondamente nel terreno per disso¬darlo. L’aspetto fortemente contraddittorio che assumeva l’azienda capitali¬stica nel nicastrese appare chiaro. Da una parte bassissimo livello tecnologi¬co ed enorme quantità di forza lavoro a costi minimi. Dall’altro altissimi profitti dovuti alle contingenze di mercato in una economia di ripresa.

Questo spiega perché già alla fine degli anni ‘50 l’agrario ‘tipo’ del nica¬strese entrerà in crisi. La mancata modificazione in senso capitalistico mo¬derno dell’azienda ne è la causa principale. I proprietari gestivano in pro¬prio queste aziende per mezzo di ‘fattori’ che costituivano la “longa ma-nus” dei padroni stessi. I contratti di fitto e mezzadria, ancora tipicamente medievali, riguardavano soltanto il suolo dei fondi cosiddetti ‘liberi’ di queste aziende, mentre gli alberi restavano al proprietario che ne conduceva in pro¬prio la coltura con l’impiego di braccianti salariati. Il loro salario era di fa¬me. Ammontava infatti a 200-300 lire e veniva corrisposto per lo più in na¬tura e non in denaro. Non essendovi una situazione oggettiva, in cui il de¬creto Gullo n. 279 potesse trovare applicazione, il problema delle terre nel nicastrese non si poneva più come occupazione di terre incolte, ma come ristrutturazione del rapporto di produzione proprio perché esisteva, per quanto concerne i terreni liberi, una conduzione diretta del proprietario attraverso ¬l’utilizzazione di salariati agricoli. Questa figura di salariato agiva in una zona di grande disoccupazione. Perciò il problema principale era difendere il salario e l’imponibile della manodopera dalla speculazione e dallo sfruttamento.

Il periodo del dopoguerra aveva causato nella zona nicastrese una profonda crisi economica per cui i braccianti, pur di lavorare, erano costretti ad accettare i salari di fame imposti dal padrone. Oltre che precarietà e sot¬toremunerazione, anche un’atavica subordinazione e rassegnazione caratteri¬zzava sia questi braccianti sottoccupati sia i piccoli contadini proprietari di fazzoletti di terra. Tra essi, anzi, si venne a creare una sorta di competi¬zione per il lavoro. Infatti, i piccoli contadini lavoravano il loro pezzetto di terra, ma il prodotto non era sufficiente al soddisfacimento dei bisogni familiari. Perciò erano costretti anch’essi a lavorare a giornata presso i grossi proprietari. Sia i proprietari-contadini che i braccianti erano in effetti dei veri e propri proletari agricoli e il lavoro salariato era la loro risorsa es¬senziale. Al loro fianco lavoravano anche le braccianti in condizioni veramente disumane. Essere braccianti in questo periodo per le donne era una condan¬na dura e crudele, senza alternative. Esse, infatti, anche se minorenni o ad¬dirittura incinte o in avanzata fase di gravidanza, erano considerate semplicemente ¬forza lavoro, mezzi da far fruttare il più possibile. Per esse significava non essere considerate esseri umani con il diritto di pensare, capire e volere. Anche se coscienti di questo sfruttamento, le braccianti erano costrette ¬dal bisogno a tenersi buoni i padroni se volevano portare a casa qualcosa.

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Gullo a Nicastro

Tale forma di sfruttamento era particolarmente attuata nell’oliveto. Questo, come abbiamo già detto, era gestito direttamente dal proprietario che, per la raccolta del prodotto, impiegava le raccoglitrici da metà settemb¬re a tutto dicembre-gennaio. Le raccoglitrici, fin quando sul terreno vi era¬no ancora poche olive (in genere fino alla prima domenica di ottobre, festa del Rosario) dividevano il raccolto col proprietario nel rapporto di uno a sei, dopo aver pagato la mulenda, ossia la lavorazione delle olive nel fran¬toio. Nel periodo successivo della raccolta esse venivano retribuite con un litro d’olio per ogni tomolo di olive raccolte. Il “patto delle olive”, firmato nel settembre 1947 in prefettura, che contemplava tutte le nor¬me di conduzione degli oliveti in provincia di Catanzaro a partire dall’annata olearia 1947-‘48, prevedeva per i raccoglitori i seguenti compensi in olio: a) ragazzi e ragazze infe¬riori a 16 anni: non meno di litri 0,713 al giorno; b) donne sopra i 16 anni: non meno di litri 1,050 al giorno; c) uomini sopra i 16 anni: non meno di litri 1,620 al giorno. Per il resto dell’anno, gli uliveti restavano incolti o lasciati a pascolo o venivano dati in fitto con esclusione degli alberi. Come si vede, vi era nella conduzione dell’oliveto la completa esclusione dei contadini. Perciò nei progetti di rivendicazione del movimento nicastrese il problema nel terremo ulivetato era quello di trasformare il bracciante precario in contadino coltivatore, cioè renderlo vero protagonista dell’uliveto, emarginando eventualmente anche il proprietario.