L’abbazia di S. Eufemia

Intorno a questa imponente struttura monastica, che segna il passaggio dall’epoca bizantina a quella normanna, ruoterà per alcuni secoli tutta la storia della piana dove i primi normanni erano giunti nel 1056. Fu però dopo il concordato di Melfi (1059) che avvenne il vero e proprio processo di insediamento e di conquista, allorché il pontefice Niccolò II riconosceva il Guiscardo duca non solo della Puglia, ma anche della Calabria la cui occupazione definitiva e completa avvenne con la presa di Reggio (1060).

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Robert de Grandmesnil

Il Guiscardo, dopo molte resistenze incontrate nella popolazione, sottomise Nicastro e Maida che rappresentavano altrettante sentinelle sulla piana e così S. Eufemia divenne sul litorale tirrenico punto strategico dell’avanzata normanna che pose fine al dominio dell’impero bizantino. I Normanni, sulle prime, anche nella piana lametina operarono al pari degli arabi come veri e propri razziatori e taglieggiatori. Iniziava la cosiddetta latinizzazione, ossia riportare sotto l’influenza della Chiesa di Roma tutti i territori conquistati che erano di rito bizantino. A questa operazione di latinizzazione va collegata la costruzione, sulla chiesa basiliana semidistrutta, dell’abbazia di S. Eufemia che fu il primo focolare di questa operazione, vero e proprio faro di irradiazione latina. Il progettista era l’abate Roberto di Grantmesnil al quale il Guiscardo assegnò la direzione del suo programma di politica architettonica ecclesiastica. L’impianto si rifaceva allo stile nordico-benedettino delle chiese della Normandia, avendo come modelli le abbazie di Cluny (fondata nel 909) e Saint Evroul-sur-Ouche da cui il Grantmesnil proveniva e dove, secondo la testimonianza di Orderico Vitale, aveva iniziato, senza però portarla a termine, la costruzione di una nuova abbazia secondo gli schemi di Cluny e Bernay (1017-1055). Il suo progetto lo realizzò poi a S. Eufemia.

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Vista aerea

Attraverso Sant’Eufemia questo modello si diffuse poi anche a Mileto (abbazia della Santissima Trinità, progettata dallo stesso Grantmesnil e consacrata nel 1080), scelta come capitale del regno e prima sede episcopale latina di tutto il meridione. Allora si costruiva in base al principio della imitatio, utilizzando il modello architettonico della chiesa più importante e illustre nella quale erano codificati i messaggi informatori dell’ordine monastico cui la chiesa si riferiva. In Calabria, l’abate-architetto Grantmesnil, cui il Guiscardo affidò il programma di ricostruzione religiosa e monastica sotto l’egida della Chiesa romana, concepì la pianta dell’abbazia di S. Eufemia sul modello benedettino-cluniacense che poi venne ripreso nella successiva chiesa della SS. Trinità di Mileto. E’ più logico, quindi, affermare che l’abbazia di S. Eufemia e non quella di Mileto abbia costituito il riferimento, dal punto di vista formale, degli altri edifici posteriori, cosiddetti di ‘seconda generazione’, sorti in Calabria tra cui la cattedrale di Gerace (costruita tra il 1085 e il 1110) e quella di Santa Maria della Roccella (fine XI secolo). Ciò troverebbe conferma anche nel fatto che la Trinità di Mileto inizialmente dipendeva dall’abbazia di S. Eufemia di cui era considerata come una vera e propria filiazione. Rimandi e influenze dell’una e dell’altra ci sarebbero stati poi anche nella Sicilia sottratta agli arabi da Ruggero, il fratello del Guiscardo, dopo una guerra durata 30 anni, dal 1061 al 1091. Nell’isola furono costruite le cattedrali di Catania (1086-1090), di Mazara del Vallo (1086-1093), di Cefalù (1131-1148), di Messina (1097) e di Palermo (1184) nella planimetria delle quali ci sono tre absidi. Il fatto che l’abside centrale sia più ampia e sporgente rispetto a quelle laterali e che ci sia la tendenza alla verticalità sono segni chiari e inconfutabili dell’appartenenza allo stile cluniacense. Sappiamo, invece, che la pianta della chiesa cruciforme e le tre navate, delimitate da colonne come le basiliche paleocristiane, appartengono alla tradizione latina. La presenza di colonne che fiancheggiano l’abside centrale è stata accertata da scavi archeologici nell’abbazia di S. Eufemia. Ecco, dunque, la grande importanza dell’abbazia lametina nel panorama dell’architettura del medioevo meridionale. Essa ha costituito la prima tappa dei modi architettonici portati dai benedettini nella Calabria bizantina di allora. Essa fu modello dello schema architettonico benedettino-cluniacense, come si vede da ciò che è stato individuato e soprattutto dall’abside laterale della chiesa con la sua forma semicircolare. Questo schema si coniuga qui con la tradizione romanica. “La critica moderna ha acutamente dimostrato come l’abbazia lametina progettata dall’abate Roberto di Grantmesnil, protomagister della fabbrica, costruita dai maestri ‘coementarii’ al seguito di Roberto e abitata dai Benedettini provenienti da Saint Evroul-sur-Ouche, abbia costituito un trapianto di cultura franco-cluniacense allo stato puro nell’ambiente assai complesso – arabo, longobardo e soprattutto bizantino – dell’estremo Sud”. Ricordiamo che era regola dell’ordine benedettino studiare l’architettura per cui i monaci erano anche progettisti e costruttori, mentre gli abati, in base a quanto fissato nelle loro Constitutiones, avevano l’obbligo di tracciare la pianta delle chiese e delle abbazie ad essi affidate.

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L' orientamento della chiesa verso est era in funzione del massimo sfruttamento della luce e del calore solare. Le finestre, perpendicolari all’asse del sole, segnavano il passaggio delle stagioni. Ma non era negato il magnetismo del nord. Infatti i monaci dormivano con il capo rivolto a nord. I ruderi dell’abbazia oggi visibili nella campagna nei pressi di S. Eufemia Vetere consistono in diverse strutture sparse in una vasta area in contrada Terravecchia: un lungo muro con contrafforti alternati a monofore a tutto sesto e altre murazioni appartenenti alla chiesa conventuale. A sud di questi ci sono alcuni corpi di fabbrica in cui sono presenti aperture ad arco che delimitano uno spazio quadrangolare, probabile luogo del chiostro. Verso nord-est ci sono gli avanzi di una torre quadrangolare. Sul lato orientale, partendo da nord verso sud, si vedono i resti delle grandi muraglie appartenenti alla cinta muraria, a conferma che le abbazie erano fortificate. In particolare quella di S. Eufemia doveva difendersi dalle ripetute incursioni saracene sulla costa lametina.

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L'abbazia e l'area di Terina

Gli esperti dicono che allo stato attuale, se non si effettuano sistematiche campagne di scavi, non è possibile sapere di preciso quale fosse la struttura del grosso complesso abbaziale. Corrado Bozzoni scrive che, esaminando i ruderi emergenti, si può arguire che “si trattava di un impianto a tre navate, forse suddiviso da pilastri, con transetto sporgente e navatelle coperte a volta; il corpo longitudinale presentava un insolito rapporto, circa uno e un terzo ad uno, simile a quello del duomo di Cefalù”. Comunque, in un Cabreo (platea o inventario dei beni) del 1655, cui accenneremo più avanti, c’è scritto che “la chiesa era grandissima, a nave, con diverse ale che servivano nelle occorrenze di inimici, anche per fortezza”. A questo punto bisogna sfatare quanto sostenuto in alcuni studi sull’architettura chiesastica normanna nell’Italia meridionale dove si afferma che il primo modello per le successive costruzioni di abbazie e cattedrali normanne, nonché il più importante per significato religioso, ideologico e autocelebrativo da parte del duca Roberto, è rappresentato dalla cattedrale di Salerno da lui fatta costruire tra il 1080 e il 1084, anno in cui fu consacrata dal papa Gregorio VII. Fu intitolata all’evangelista Matteo in quanto vi furono definitivamente sistemate le reliquie del santo che erano state trasportate a Salerno nell’anno 954, allorché il principe longobardo Gisulfo I le sottrasse con la forza a Capaccio, località del Cilento dove erano state rinvenute e dove era avvenuta la regolare ricognizione canonica che ne accertava l’autenticità. In realtà, questo ruolo di primogenitura bisogna riconoscerlo all’abbazia di S. Maria di S. Eufemia che è più antica della cattedrale di Salerno di ben 20 anni, essendo stata ultimata già nel 1062. Tra questa data e il 1066 vennero poi costruite quelle della Trinità di Venosa e di S. Angelo di Mileto. Forse cronologicamente precedente, ma solo di poco e senza che le venisse assegnato alcun ruolo strategico particolare, è stata quella di S. Maria della Matina (1059-1061) in territorio di S. Marco Argentano dove aveva avuto inizio l’avventura calabrese del Guiscardo. Quelle di Mileto e Venosa, rette da due priori francesi, erano alle dipendenze di S. Eufemia. Quella di Mileto fu sottoposta dal Guiscardo a Roberto di Grantmesnil il quale l’affidò a Guglielmo di Enguenamm, anche lui monaco di Saint-Evroul-sur-Ouche, che la tenne fino al 1097. In tutte, come scrive Orderico Vitale, si udivano gli stessi canti di Saint-Evroul.

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Abbazia: panoramica

Tutte queste chiese e monasteri, sorti col preciso intento di assorbire le preesistenti strutture ecclesiastiche greche secondo gli accordi di collaborazione del papa coi normanni, rappresentavano il segno visibile con cui i conquistatori imponevano la loro impronta sulle città e, quindi, assolvevano anche al ruolo di vero e proprio controllo del territorio. Questa funzione venne assegnata in particolare a quella di S. Eufemia per la sua posizione strategica sull’istmo. Quanto poi ai legami affettivi dei sovrani normanni nei confronti delle abbazie, se è vero che in quella di Venosa furono raccolte le spoglie dei primi Altavilla, del Guiscardo e della sua prima moglie Alberada; se è vero altresì che nel 1101 in quella di Mileto furono sepolti, in due sarcofagi tardo-antichi salvatisi dal terremoto del 1783 e conservati ora presso il Museo Archeologico di Napoli, il conte Ruggero I e poi anche la seconda moglie Eremburga di Montreuil (morta nel 1089); se è certo che a Canosa è stato sepolto Boemondo, è vero altresì ed è certamente più significativo, in relazione alle connotazioni sepolcrali dinastiche delle abbazie normanne, il fatto che l’abbazia di S. Eufemia sia stata preferita dal Guiscardo come mausoleo per la madre Fredesenda, seconda moglie di Tancredi d’Altavilla. Lo ha tramandato Orderico Vitale, monaco del monastero benedettino di Saint Evroul-sur-Ouche. Inoltre, Goffredo Malaterra, monaco normanno che soggiornò per qualche tempo nel chiostro di S. Eufemia e che, quindi, conosceva direttamente luoghi e avvenimenti da lui narrati, ci ha tramandato la notizia che il Guiscardo fece seppellire a S. Eufemia le spoglie di altri due suoi carissimi familiari caduti nel 1065 durante l’assedio di Aiello: Ruggero, figlio di Scolcando, e suo nipote Gilberto. E’ la conferma di quanto i signori normanni tenessero alla memoria funeraria, facendo delle tre abbazie di Venosa, Mileto e S. Eufemia i centri spirituali e i sacrari familiari degli Altavilla. Ricordiamo che le casse marmoree adibite a sarcofagi dai signori normanni provenivano in gran parte direttamente da Roma o da Ostia. Ove non erano disponibili esemplari già pronti, ne facevano creare dei nuovi sul modello di quelli antichi, utilizzando il porfido di antiche colonne romane. Così come nelle abbazie normanne, per abbellirle, vennero trasferite sculture, iscrizioni, elementi architettonici e altro materiale cosiddetto di spoglio recuperato negli edifici e monumenti antichi. Aggiungiamo che l’abbazia di S. Eufemia fu dotata dal Guiscardo di un enorme patrimonio terriero, immunità e prerogative giuridiche e il suo esempio fu seguito poi dagli altri signori normanni fra cui la contessa Emburga, figlia di Drogone e nipote del Guiscardo, la quale, stabilitasi nella vicina Nicastro, era stata munifica verso la chiesa cattedrale da lei fatta costruire, su quella precedente angusta e fatiscente, dietro esortazione del papa Urbano II. In altre parole, i sovrani normanni baronizzarono l’abbazia per cui essa era alla dipendenza vassallatica della Corona. Essa era per questo fedelissima al sovrano. Ecco perché era normale che gli abati di S. Eufemia fossero spesso ospiti a corte. L’abbazia però, come altri monasteri calabresi che risultavano “domini papae”, pagava il censo al vaticano. All’abbazia fu fatto dono di ben sei monasteri ex basiliani con le rispettive proprietà fondiarie, dipendenze e coloni. E’ stato tramandato anche che la fondazione di questa abbazia sia stata un atto di ringraziamento a Dio e alla Vergine da parte del Guiscardo per aver portato a compimento la conquista della Calabria. In effetti Goffredo Malaterra ha scritto che la chiesa era dedicata a Santa Maria Genitrice di Dio (apud Sanctam Euphemiam, ubi tunc abbatia in honore Sanctae Dei Genitricis Mariae noviter incoepta instituebatur). Questo monastero, costruito nel cuore della piana lametina, rappresenta, come abbiamo già accennato precedentemente, la prima manifestazione concreta della politica ecclesiastica del Guiscardo nei suoi rapporti col papa dopo il concordato stipulato a Melfi nel 1059. Con questo accordo il papa legittimava le conquiste normanne nel sud d’Italia e le abbazie divennero strumento della loro politica tesa a riportare sotto la Chiesa di Roma tutti i territori conquistati che erano di rito bizantino. I monaci benedettini nelle abbazie svolgevano un ruolo politico ed economico oltre che religioso. Erano dei veri e propri feudatari che amministravano estesi possedimenti e godevano di molti privilegi. Per svolgere meglio questo loro ruolo, le abbazie erano sottratte alla giurisdizione dei vescovi ed erano soggette direttamente all’autorità pontificia di Roma. Questa autonomia fu causa di conflitti tra gli abati e i vescovi che non tolleravano i poteri concessi ai monaci.

All’abbazia di S. Eufemia erano stati dati anche alcuni centri urbani come Sambiase e Nicastro. Quest’ultima, dopo aver opposto una forte resistenza ai Normanni, fu presa e infeudata ai benedettini di S. Eufemia per metà, compreso il castello fatto costruire, come diremo, dai normanni stessi. L’altra metà della città apparteneva al vescovo. Fu poi Federico II (1194-1250), figlio di Enrico VI di Svevia (Hohenstaufen) e di Costanza d’Altavilla, che, quando ereditò per via della madre tutti i beni dei normanni, come leggiamo nella Historia diplomatica di questo imperatore, riuscì nel 1231 ad ottenere che Nicastro e il castello venissero restituiti allo Stato con un contratto di permuta sottoscritto dall’abate di S. Eufemia Giovanni e Matteo Marchiafava, segretario dell’Imperiale Dogana (“doanae in Calabria magister”). Essendo il Marchiafava caduto in disgrazia dell’imperatore, il contratto non fu reso esecutivo. Le trattative furono riprese e condotte a termine a Foggia nel febbraio del 1240. In cambio del castello e della metà della città l’abbazia ricevette la terra di Nocera, con la sua marina e il porto (chiamato Navis de Arata) e una parte del casale di Aprigliano nel distretto di Cosenza. Questa permuta si rivelò vantaggiosa per l’abbazia in quanto accrebbe notevolmente i suoi possedimenti, avendo accesso ai boschi silani e uno sbocco a mare col porto di Nocera, che consentiva il commercio. Nell’operazione di permuta al vescovo che possedeva l’altra metà della città fu data in cambio la contea di Rocca Falluca. Nicastro divenne città di regio demanio. La concessione del casale di Nocera all’abbazia, per l’annuo censo di due oncie da pagarsi annualmente nella festa dell’Assunzione, risulta confermata dal papa Alessandro IV nel 1255 e richiamata, con l’indicazione dello stesso censo annuo pattuito per il passaggio, dal papa Nicolò IV (1288-1293). In quegli anni l’abbazia restò coinvolta e condizionata nell’aspra e lunga contesa tra l’imperatore e il papa Gregorio IX (1227-1241), iniziata nel 1227 allorché il pontefice (con lettera del 22 marzo) “esortava l’imperatore a mantenere il suo giuramento d’intraprendere la crociata in Terra Santa, tante volte promessa ad Onorio III e mai effettuata”.

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Abbazia: particolare

Federico II s’imbarcò da Brindisi con i crociati, ma tornò subito indietro adducendo la scusa che sulle navi era scoppiata una pestilenza. Il papa, resosi conto che si trattava di un inganno, gli lanciò la scomunica “rinnovandola il 23 marzo del 1228 insieme con l’interdetto, alla presenza di un gran numero di vescovi e di prelati convenuti a Roma per la Pasqua”. L’imperatore, che si trovava a Nicastro, non tardò a mettere in atto la sua vendetta avviando tutta una serie di soprusi, malversazioni e usurpazioni di beni nei confronti di chiese e monasteri calabresi. Ne fece le spese anche l’abbazia di S. Eufemia. Lo denunciava il papa nel 1236 allorché con apposite bolle del 20 settembre, in riferimento anche alla permuta sottoscritta alcuni anni prima, ma non ancora resa operativa, lamentava l’occupazione abusiva dei beni dell’abbazia e ne richiedeva l’immediata restituzione. L’imperatore negava le accuse sostenendo che si trattava di malignità. Per questo la rottura non fu composta anzi il papa il 20 marzo 1239 lanciò una nuova scomunica contro l’imperatore accusato di aver spogliato dei beni cattedrali e monasteri, tra cui l’abbazia di S. Eufemia. Nel 1209 l’abbazia si era schierata con la casa di Svevia contro il conte di Tropea, Anfuso di Rota, che voleva crearsi una signoria tutta sua e si era già impadronito dei beni della Chiesa di Mileto. Per questa fedeltà alla Corona legittima le terre dell’abbazia furono per vendetta devastate dagli armigeri del conte. E quando nel 1282 scoppiò la guerra dei Vespri Siciliani, l’abbazia di S. Eufemia, già passata, come diremo più avanti, dai benedettini agli Ospedalieri di S. Giovanni poi Cavalieri di Malta, si schierò con gli aragonesi ritenuti i legittimi eredi degli svevi. Addirittura, l’anno dopo, quando la rivolta si propagava anche nel Mezzogiorno continentale e le truppe aragonesi sbarcarono in Calabria, il suo abate Arnaldo di Ponzio degli Ospedalieri si mise alla testa di un manipolo di armati come un vero e proprio condottiero. Il 9 marzo 1284 Carlo, principe di Salerno, scriveva al conte d’Artois di provvedere alla custodia e alla difesa della costa di S. Eufemia perché il Priore dell’abbazia Pietro de Musac, cui era stata affidata la difesa, era impegnato in altra parte del territorio. Sostenitore degli aragonesi in questa circostanza fu anche il vescovo di Nicastro, il francescano Tancredi di Montefusco (1279-1299) dell’ordine dei Minimi, mentre gran parte dell’episcopato calabrese era schierato con gli angioini, visto che la dinastia francese aveva avuto la legittimazione da parte del papa. Il vescovo Tancredi presenziò addirittura all’incoronazione di Giacomo d’Aragona a re di Sicilia il 2 febbraio 1286. Per questo incorse nelle censure ecclesiastiche con bolla del papa Onorio IV del 18 novembre 1286 e fu scomunicato e privato del suo ufficio insieme ad altri prelati.

Quando nel 1378 dai cardinali francesi, che avevano cessato di riconoscere il papa Urbano VI, fu eletto l’antipapa Clemente VII (Roberto di Ginevra), il primo dei papi dello scisma d’Occidente, i monaci di S. Eufemia manifestarono la loro fedeltà alla chiesa. L’abbazia ha avuto anche il titolo di S. Giovanni Battista. Questo titolo lo prese allorché passò sotto il dominio del Sovrano Militare Ospedaliero Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme, fondato in Terra Santa sul finire dell’XI secolo per offrire assistenza e protezione ai pellegrini. L’Ordine degli Ospedalieri, il cui capo supremo era il Gran Maestro, dopo il fallimento delle crociate e la caduta in mano musulmana dell’ultima roccaforte cristiana, S. Giovanni d’Acri (1291), insieme a quello dei Templari, si trasferì prima a Cipro e poi nel 1310 a Rodi, dove rimase fino alla conquista dell’isola da parte dei Turchi del Sultano Solimano il Magnifico, nel 1522. Da Rodi gli Ospedalieri si recarono a Malta che apparteneva alla corona spagnola. L’isola fu loro assegnata in feudo perpetuo dall’imperatore Carlo V con un’apposita bolla del 23 marzo 1530, grazie alla intermediazione del papa Adriano VI. Da quella data l’ordine degli Ospedalieri venne chiamato Sacro Ordine Militare (S.O.M.) dei Cavalieri di Malta, che portavano il mantello nero in pace e rosso in guerra, con una croce bianca a otto punte. Il passaggio della feudataria Abbazia di S. Eufemia, con tutte le sue dipendenze feudali, agli Ospedalieri avvenne, col consenso del pontefice, qualche anno prima del 1282, anno dello scoppio dei Vespri Siciliani, cioè della ribellione della Sicilia contro Carlo d’Angiò, subentrato alla casa sveva dopo l’uccisione di Manfredi, figlio di Federico II, nella battaglia di Benevento (1266). La guerra che ne derivò fece registrare degli scontri anche nella piana di S. Eufemia. A conferma dell’avvenuto passaggio dai Benedettini agli Ospedalieri prima del Vespro c’è nell’Archivio Vaticano nei Registri Camerali (Collectoriae) un documento di natura fiscale, relativo al mancato versamento delle decime da parte dell’abbazia (anni 1275-1279), in cui risulta a S. Eufemia il priore Roberto “Hospitalis S. Johannis Jerosolimitani”. I cavalieri gioanniti, ereditando il vasto patrimonio dell’abbazia, costituirono in S. Eufemia un Baliaggio che, posto alla dipendenza del Priorato di Capua, fu uno dei più ricchi dell’antico regno di Napoli. Cominciava la parabola discendente dell’abbazia soprattutto dal punto di vista spirituale e culturale. L’abbazia, che non aveva più i 100 monaci del periodo normanno, fu retrocessa al rango di priorato. Già nel 1284 c’è un priore, tale Pietro de Musac “hordinis hospitalis S. Johannis Jerosolymitani”. Nel 1305 il priore è Francesco de Pisturia. C’è poi una bolla di Clemente V (21 dicembre 1307) al vescovo di Nicastro Nicola (1299-1320), già abate del monastero benedettino della SS. Trinità di Mileto, al quale viene raccomandato di fare tutto il possibile perché il Maestro e i Cavalieri dell’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme non siano molestati né nelle persone né nei beni, ma piuttosto venga in loro difesa nel migliore dei modi. Il che – come sostiene il Russo – dimostra che il passaggio dell’abbazia dai Benedettini ai Cavalieri era avvenuto non senza contrasti e continuava ad incontrare opposizione e resistenza.

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Abbazia: particolare

Nel 1310 è ricordato “d.nus Andreas de S.ta Eufemia”. Sette anni dopo, il 21 luglio 1317, Giovanni XXII (1316-1334) da Avignone mise a capo del “Priorato di S. Giovanni Gerosolimitano di S. Eufemia in Calabria” tale Falcone Paucapalea. Nel 1344 ricopre l’incarico fra’ Leonardo. Nel 1352 il priore era Francesco di Stabia. Nel 1361-1362 risulta come precettore sia di Capua che di S. Eufemia Isnardo de Albarno. Nel 1370 è ricordato come priore Manuele di Chabaut definito “Praeceptor Hospitalis S. Euphemiae”, subentrato al defunto Beltrando de Boysio o Boyssono con una elezione contrastata per cui il papa intervenne a sua protezione raccomandandolo alla regina Giovanna e al Maestro dell’abbazia Raimondo. La reggenza di Chabaut risultò molto contrastata tanto che nel 1376, in caso di sua morte venne proposto alla reggenza dell’abbazia un monaco interno di nome Gerardo de Ruppe. Nel 1382, accusato di aver assecondato Carlo di Durazzo aperto nemico del papa e della Chiesa Romana, Clemente VII ordina la rimozione di Chabaut e la sostituzione con Giovanni Savini. Nel 1407 era priore Giovanni di Catanzaro. Il papa Gregorio XII con bolla del 2 maggio 1407 ne ordina la rimozione a causa della sua ribellione e adesione a Pietro de Luna “qui pro papa se gerit”. Al suo posto, per essersi schierato con lo pseudopapa, viene scelto Onorato Gaetano. Nel 1437 è priore Giovanni Ruffo di Calabria “cum facultate disponendi perpetualiter”. Alla sua improvvisa morte viene nominato Giacomo de Gori. Subito dopo però costui viene sostituito da Sergio Seripando, napoletano, il quale il 15 aprile 1462 concesse delle terre del Priorato di S. Eufemia in enfiteusi perpetua al Principe Marino di Nocera Terinese. Nel 1463 al priorato di S. Eufemia viene unito temporaneamente il monastero basiliano di S. Filerete di Seminara, in diocesi di Mileto. Nel 1465 alla morte di Seripando la commenda viene data a Bartolomeo di Ravenna al quale viene confermata anche quella del monastero di S. Filerete. La pensione annuale prevista per il commendatario Bartolomeo è di trecento fiorini d’oro. Nel 1474 risulta priore Fiore Roverella, oratore del re di Ungheria e Boemia. Nel 1477 al Roverella il papa Sisto IV (1471-1484) dà facoltà di commutare “quasdam villas et terram in loco de Pruliano, Zardino nuncupato, dioc. Crotonen”. Nel 1479 il papa gli concede di poter fare testamento. Alla morte di Roverella diventa priore Pietro Ludovico Borgia. Nel 1494 gli viene conferito anche il monastero basiliano di Benevento. Al priorato di S. Eufemia era annesso anche il monastero dello stesso ordine di S. Giovanni di Castrovillari se nel 1494 la bolla di Alessandro VI del 24 giugno assegna la precettoria di questo monastero al chierico napoletano Annibale de Marsoli “per dissolutionem unionis priorati S. Euphemiae”.

Il 20 luglio del 1506 il papa Giulio II (1503-1513) si rivolge a Gundisalvo Fernando, capitano generale “Regis Hispaniarum in Regno Siciliae”, affinché favorisca il fratello gerosolimitano Fabrizio del Carretto nel prendere possesso della precettoria di S. Eufemia. I monaci dell’abbazia agli inizi del ‘500 si prendevano cura “aliquando” anche della parrocchia di S. Giovanni Battista in S. Eufemia. Dopo una breve reggenza di Ugone di Moncada, il baiulato viene affidato nel 1529 e confermato nel 1550 a Fabrizio Pignatelli, nipote del vicerè di Sicilia. Pignatelli, che era anche abate e beneficiato “monasterii S. Mariae de Pactano, O. S. Bas., Caputaquen. dioc.,” nel 1566 ottiene dal papa Pio V l’autorizzazione a concedere in enfiteusi perpetua alcune terre dell’abbazia di S. Eufemia. Nel 1597-1604 risulta baiulo Centino o Centonio Cagnoli che deve garantire una pensione annua di 100 scudi sui frutti dell’abbazia ai frati Paolo Passioneo e Giovanni Antonio Bergetti. Nel 1655 il Baliaggio è retto da Pietro di Anselmo il quale si trova impegnato a recuperare “census, scripturas, decimas, primitias, ornamenta, crucis, vasa aurea et argentea, pannos, etc.”, e altri beni sottratti all’abbazia. Trattandosi di un patrimonio significativo, il papa dà mandato ai vescovi e vicari generali di Catanzaro, Crotone, Belcastro, Nicastro, Tropea e Martirano affinché si attivino per il recupero e la restituzione dei beni indebitamente sottratti e spettanti ora al baliaggio. Stesso mandato viene affidato da Alessandro VII nel 1659, mentre regge il priorato fra’ Amedeo Rivero, ai vescovi di Nicastro e Squillace affinché si adoperino al recupero dei beni sottratti indebitamente al priorato di S. Eufemia tra cui “census, bona, scripturas, libros, decimas, primitias, ornamenta et paramenta ecclesiastica etc.”. Nel 1660 il Baliaggio risulta affidato al cav. Marchese Sfrondati il quale lo aveva fittato al cav. Giuseppe Curti per 14mila ducati. Nel 1667 il papa Clemente IX concedeva il baliaggio al cav. Fra’ Vincenzo Rospigliosi, in seguito alla morte del precedente commendatario marchese Sfrondati, anche se, come denunciava il Nunzio di Napoli al Segretario di Stato in data 6 agosto, c’erano delle difficoltà per il Regio Exequatur alla concessione. Ma il 13 agosto il Viceré concedeva il nulla osta. Il nuovo commendatario Rospigliosi in data 20 agosto 1667 lo fitta per lo stesso prezzo al cav. Lovera. Ma l’11 settembre 1667 il Nunzio di Napoli informava il Segretario di Stato che “il cav. Cicala, Ricevitore dell’Ordine di Malta, dietro commissione del Gran Priore, ha conferito il Baliaggio di S. Eufemia al cav. Gian Battista Brancaccio nella chiesa di S. Maria delle Grazie”. Perciò il Nunzio si affrettava a chiedere al Viceré di differire la concessione del regio Exequatur. Il complicato intreccio veniva risolto il 20 settembre a favore del Rospigliosi allorché il Nunzio informava il Segretario di Stato della disposizione del Viceré verso fra’ Vincenzo Rospigliosi, mentre il card. Brancaccio dichiarava di rimettersi ai voleri del Papa. Anche il Rospigliosi si trovò di fronte al problema di recuperare i tanti beni sottratti al baliaggio. E, infatti, il papa Clemente IX con bolla del 13 novembre 1668 dava mandato agli arcivescovi e ai vicari generali di Cosenza e Reggio di far restituire “bona, scriupturas, fidem facientes praesertim in confinis et terminis praediorum dicti baiulinatus, librorum quantitates, decimas, premitias, census, vasa aurea et argentea, ornamenta et paramenta ecclesiastica”. Alla morte del Rospigliosi la commenda del baliaggio viene assegnata al cardinale Paolo Alterio titolare della Basilica romana dei SS. XII Apostoli. Il conferimento viene ufficializzato il 27 marzo 1673.

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Abbazia: particolare

Ma vi sono delle difficoltà per la presa effettiva di possesso. Infatti il 28 marzo il Nunzio di Napoli scriveva al Segretario di Stato: “Per quello che tocca il prender possesso del baliaggio di S. Eufemia, vacante per la morte del Sig. Balì Fra’ Vincenzo Rospigliosi, stimo a proposito la sollecita trasmissione della spedizione qua, acciocché si possa ottenere con ogni maggio prontezza il Regio exequatur”. Il 31 marzo lo stesso Nunzio comunicava al Segretario di Stato che “i Cavalieri di Malta credono che il Priore Spinola non voglia ottenere il Baliaggio di S. Eufemia, che tocca al Priore della Roccella”. Il 18 aprile il Nunzio comunica al segretario di Stato che si sono appianate le difficoltà per il Regio exequatur del Baliaggio di S. Eufemia, “per cui, appena sarà pronto, manderà a prenderne possesso”. Ma il cardinale Alterio rinuncia e il baliaggio viene assegnato a Giuseppe Rivelli che il 20 giugno parte per prenderne possesso. Nel 1705 il balì è Stefano Sanvitale che, con l’aiuto dei vescovi e vicari generali di Catanzaro, Crotone e Belcastro, cerca di recuperare tanti beni del baliaggio. Dalla metà del ‘500 dipendeva dal priorato di S. Eufemia anche la chiesa parrocchiale di S. Maria della Grande (Santa Maria Maggiore) nonostante ne rivendicasse la giurisdizione il vescovo di Nicastro. Ne abbiamo conferma in alcuni documenti d’archivio. In uno dell’8 novembre 1624 si afferma che nel 1531 la chiesa dal baiulino di S. Eufemia fu affidata ad Aloisio Barbaro. Nel 1597 sarebbe passata al monaco gerosolimitano nonché cappellano Virgilio Forlano. Alla sua morte, avvenuta a Roma presso la Sede Apostolica, la chiesa fu affidata a Marco Coria, presbitero nicastrese dell’ordine gerosolimitano, nonostante una sentenza della S. Romana Rota favorevole al vescovo di Nicastro. Nel 1599 dalla Sede Apostolica ne fu provvisto Giovanni Pietro Rocca. Costui l’avrebbe permutata con Cesare Nicotera e alla morte di costui la parrocchia passò ad un certo Lelio. In un altro documento del mese di ottobre 1624, relativo al conferimento della chiesa al suddetto gerosolimitano Marco Coria di Nicastro, si afferma espressamente che “ecclesia S. Mariae della Grande, Neocastren., a Prioratu S. Euphemiae, Ord. Hosp. S. Io. Hierosol., dependet, cuius fructus LXX duc.”. Una ulteriore conferma della dipendenza della chiesa di S. Maria Maggiore dal Baiulato dei Cavalieri di Malta di S. Eufemia la ritroviamo in una bolla di Innocenzo X del 24 marzo 1645. In essa si conferma l’assegnazione della cura della chiesa al frate cappellano dell’ordine gerosolimitano di S. Eufemia Massimiliano Michele di Tropea.

La disputa sul possesso di S. Maria Maggiore tra il Balì e il vescovo era ancora viva a metà del ‘700. Il 6 giugno 1751 il cardinale Segretario di Stato scriveva al Nunzio di Napoli: “Sulla controversia del sac. Lo Schiavo, provvisto apostolico della parrocchia di S. Maria la Grande di Nicastro, col provvisto dal Balì di S. Eufemia, si danno le direttive perché possa portare a termine l’iniziato accomodamento”. Il 18 giugno 1751 il cardinale Segretario di Stato comunicava al Nunzio di Napoli che “mons. Datario ha confermato che il Balì di S. Eufemia è nel possesso di dare o nominare alla parrocchia di S. Maria la Grande di Nicastro, finché non restano vagliate le ragioni delle due parti. Si ha per questo la decisione del 1567 presso il Postio e altri documenti. Faccia perciò sapere al vescovo di Nicastro che esamini il candidato del Balì e, trovatolo idoneo alla cura delle anime, gli dia il possesso, salve sempre le ragioni che porteraà in giudizio Petitorio”. Le vertenza secolare sarà risolta a favore del vescovo soltanto col Concordato del 1818. Comunque, al priorato di S. Eufemia fu affidata la giurisdizione oltre che sulla chiesa di S. Maria Maggiore anche sul villaggio di S. Eufemia, su Terravecchia e sul casale di S. Leone, sparito – secondo il Russo – nel 1500. Al baiulato di S. Eufemia appartenevano anche altre dipendenze come quella denominata “Rhodio et S. Mauri” che nel 1645, per un valore di 125 scudi, risulta intestata al frate dell’ordine gerosolimitano Scipione Monforte. In effetti, oltre che un centro di vita religiosa attiva e dinamica, l’abbazia era un solido complesso agrario-feudale, con enormi rendite, anche perché i monaci benedettini, come già avevano fatto i basiliani, attuarono estese bonifiche sulle zone acquitrinose, contribuendo in maniera determinante a rivitalizzare sia la costa che tutto il territorio circostante, assolvendo al ruolo di polo di attivazione in un’area precedentemente spopolata. Come ha scritto il Pontieri, “le terre di tutta la Piana di S. Eufemia, dalle rive del golfo omonimo col suo porto alle opposte pendici montuose, costituivano il grosso dei possedimenti terrieri della Badia”. Era, insomma, una grande ‘massa’ di fondi, feudalmente organizzata, sulla quale, come abbiamo già detto, la Santa Sede percepiva un annuo censo che doveva essere versato alla festa di Ognissanti. Molto spesso i censi non venivano versati anche per diversi anni e allora il papa, per recuperare le somme dovute, dopo le sollecitazioni andate a vuoto, ne affidava la riscossione diretta ai cosiddetti ‘collettori’, addebitando le spese accessorie al priore debitore. Dal Priorato dei Cavalieri di S. Eufemia dipendevano anche terre molto lontane come Melicuccà, col monastero di S. Elia de Spelonca, in diocesi di Mileto. Nel 1399 risultava dipendente da S. Eufemia anche il monastero degli Ospedalieri di S. Giovanni di Castrovillari in diocesi di Cassano. Proprio per questo il possesso della terra col tempo divenne prevalente rispetto al misticismo e alla pietà. Ne sono prova le molte permute di terreni che i priori facevano con nobili casate del Regno. Si ricordano, ad esempio le permute del 1361 con il conte di Squillace Goffredo de Marzano, col cavaliere napoletano Cristoforo de Costanzo e con il cavaliere Matteo Capuano luogotenente della regia curia di Sicilia.

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Abbazia: reportage fotografico

Gli scopi religiosi per i quali l’abbazia era sorta furono completamente snaturati quando subentrarono i cavalieri di Malta che erano un ordine militare. Inoltre i Balì (il più alto grado dell’ordine) che si susseguirono nella reggenza dell’abbazia e del relativo baliaggio se ne stavano a Malta e affittavano i terreni, che abbracciavano tutta la piana dal mare ai monti, a gente facoltosa del luogo. Così nel 1645 terreni del priorato risultano dati in fitto per 5 anni, col consenso del gran Maestro, a Giuliano Nerli, appartenente all’ordine gerosolimitano, e a Giacomo Benincasa. Memorandi i contrasti dell’abbazia con la mensa vescovile di Nicastro per il possesso di alcune terre e soprattutto di S. Sidero di cui il vescovo era barone, ma che ricadeva nel territorio dell’abbazia di S. Eufemia dalla quale dipendeva quella di S. Sidero. Non meno complesse e lunghe le liti giudiziarie iniziate nel 1110 con l’abbazia di Santa Maria la Cattolica e dei Dodici Apostoli di Bagnara (fondata dal conte Ruggero nel 1085) il cui priore Costanzo si era impadronito di alcuni terreni e boschi ad est della città vicino a S. Elia (piano della Corona e Sparta) di cui asserivano di essere proprietari i monaci di S. Eufemia che li avevano ottenuti dal conte Ruggero con atto di donazione alla nascente abbazia lametina. Poiché non riuscirono a fare valere i propri diritti con le buone, i monaci di S. Eufemia passarono alle vie di fatto “ordinando ai propri coloni di penetrare nelle dette terre con le armi, di asportarne i maiali e di recidervi gli alberi”. La vertenza si protrasse per oltre mezzo secolo e vide i monaci di S. Eufemia soccombere ripetutamente alle numerose sentenze che si ebbero nel corso di quei decenni. Soltanto nel 1168 l’arcivescovo di Reggio Ruggero riuscì a dirimere la lite tra l’abate di S. Eufemia e il priore di Bagnara. Tra i testimoni firmatari della sentenza figurava anche il vescovo Guglielmo (1168-1178), uno dei pochi prelati nativi di Nicastro, il quale, come scrive Francesco Russo, aveva alienato molti beni della chiesa nicastrese ai propri congiunti. Proprio la grande estensione dei terreni dell’abbazia in quasi tutta la regione li esponeva con facilità alle usurpazioni, invasioni ed appropriazioni indebite da parte di ‘nobili laici’ non solo della diocesi di Nicastro, ma anche di Mileto, Tropea, Martirano, Cassano, Catanzaro, Gerace, Reggio e Cosenza. Tante, dunque, le vertenze giudiziarie e tanti gli interventi del papa, per salvaguardare i diritti conculcati dell’abbazia, tramite suoi autorevoli rappresentanti come l’arcivescovo di Napoli o i vescovi delle diocesi interessate. Il papa qualche volta interveniva direttamente sulla regina Giovanna sia per tutelare l’abbazia dai “gravamina” imposti dagli “officiales” di corte sia per chiedere riduzioni fiscali in annate di povertà. C’è anche qualche caso in cui è l’abbazia a risultare usurpatrice di beni altrui e il suo priore o precettore essere chiamato in giudizio. Ricordiamo la causa con Francesco Bistonte di Scalea per risolvere la quale dovette intervenire il papa Gregorio XI il 9 marzo 1374 da Avignone, investendo del caso i vescovi di Martirano, Nicastro e Cassano.

Era successo che Beltrando de Boysio, precettore dell’abbazia, si era impadronito di alcuni beni sia mobili che immobili di Francesco Bistonti, situati nei territori delle diocesi di Nicastro e Catanzaro. Tenutasi la causa, la sentenza definitiva fu sfavorevole al precettore che fu condannato a restituire non solo i beni occupati, ma anche i frutti percepiti e gli utili maturati. Ma, morto Beltrando e subentratogli Manuele Chabaut, costui non volle restituire i beni. Il papa perciò diede mandato ai vescovi suddetti affinché facessero eseguire la sentenza e l’abbazia restituisse i beni illecitamente occupati. Chabaut non obbedì e fu colpito dall’interdetto e dalla scomunica. Ne fu liberato allorché, alla morte di Francesco Bistonti, si decise a restituire agli eredi i beni illecitamente occupati. A confermare il ruolo centrale che i normanni davano all’abbazia di S. Eufemia e alla comunità privilegiata in essa costituita, bisogna aggiungere che Ruggero, fratello del Guiscardo, “la considerò come cosa sua prima ancora che la zona in cui era sorta soggiacesse per intero alla sua signoria feudale. Fra le mura di essa, nelle more della guerra di Sicilia, piaceva a Ruggero trascorrere qualche giorno in sereno riposo, cercandovi quella stessa pace ristoratrice che nella lontana giovinezza era solito domandare al chiostro di Saint Evroul-sur-Ouche nella patria Normandia: furono questi legami sentimentali per cui i due fratelli d’Hauteville consideravano Sant’Eufemia come una filiale di Saint Evroul in Italia. E quando Ruggero, dopo la morte del fratello Roberto, apparve […] il più forte e avveduto dei signori normanni nell’Italia del sud, fu nel chiostro di Sant’Eufemia ch’egli si appartava per appianare e risolvere grosse questioni”. Pur avendo sede stabile a Mileto, l’abbazia era per il Gran Conte “sito di diporto […] quando le cure dello Stato gli permettevano le ricreazioni della campagna”.

Il primo abate di S. Eufemia fu Roberto di Grantmesnil, figlio di Edvige Giroy. Apparteneva alla massima nobiltà normanna in quanto i De Grantmesnil erano una famiglia cadetta degli Evreux imparentati con i duchi di Normandia. Questo blasone gli valse il rispetto e la benevolenza del Guiscardo e della massima nobiltà normanna residente in Italia nonché la disponibilità e l’attenzione dei pontefici. Roberto aveva abbandonato la guerra per diventare abate del monastero di Saint Evroul-sur-Ouche che aveva aiutato a rifondare. Prese parte alla congiura contro il duca di Normandia Guglielmo (detto il Conquistatore) che lo depose dalla carica di abate. Per sottrarsi alla vendetta dopo il fallimento della congiura, nel 1061 fuggì in Calabria dove, come abbiamo detto, il Guiscardo gli affidò la costruzione dell’abbazia di S. Eufemia. Insieme a lui era fuggita anche la sorellastra Giuditta d’Evreux che nel Natale dello stesso anno 1061 a Mileto sposò il Conte Ruggero “con grandi feste e accompagnamento di musici”. Il monastero, che inizialmente contava 12 monaci provenienti anch’essi dalla Normandia e appartenenti alla nobiltà cavalleresca normanna, acquistò subito fama e conobbe il periodo più aureo della sua storia. Ben presto arrivarono altri monaci dalla Normandia, dalla Bretagna, dalla Lorena e dalla Germania. Non erano semplici fraticelli, ma uomini di studio e d’affari, scribi e amanuensi, esperti nelle arti allora più in voga: letteratura, musica e culto religioso. Dopo poco tempo i monaci nell’abbazia, come scrive Orderico Vitale, raggiunsero il numero di 100, molti dei quali provenienti dalle regioni della Francia e della Germania, per effetto della politica sia del Guiscardo che di Ruggero i quali favorirono una massiccia immigrazione ecclesiastica d’oltralpe. A S. Eufemia si formarono tutti i primi vescovi delle ricostituite diocesi anche della Sicilia normanna. E’ il caso di Stefano di Rouen e di Augerio Britonen che da S. Eufemia furono inviati come vescovi a Catania e a Mazara. Solo più tardi in questo delicato compito subentrerà la chiesa di Bagnara. Nel diploma di fondazione dell’abbazia di S. Eufemia si legge che il Guiscardo stabilì le modalità dell’elezione dell’abate secondo la regola di S. Benedetto, ma il neo eletto doveva sottoporsi al suo assenso.

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L’abate, che era il superiore e il padre della comunità dei monaci i quali si chiamavano fra loro fratelli, aveva a S. Eufemia grande autorità in quanto l’intero monastero dipendeva dal suo giudizio. Egli era responsabile tanto per l’aspetto spirituale quanto per quello temporale. Egli nominava tutti i responsabili della comunità e nessuno doveva modificare un’usanza precedente o introdurne una nuova senza il suo ordine. Anche lui però era vincolato dalla tradizione esistente e non poteva prendere nessuna decisione importante senza aver consultato la comunità riunita in Capitolo. Quando l’abate moriva, il successore, secondo la regola benedettina, veniva scelto ‘concordemente’ e ‘secondo il timor di Dio da tutta la comunità o anche da una sola parte di essa, per quanto piccola, in base ad una più saggia decisione’. Una volta eletto, gli veniva conferita la benedizione abbaziale con la quale la Chiesa riconosceva e rendeva ufficiale la scelta della Comunità. L’unico qualificato a presiedere questa funzione era il vescovo. Accadeva, quindi, che questi ne approfittava per arrogarsi qualche potere sia sull’abate da lui benedetto, sia sull’abbazia preoccupata di conservare la sua autonomia. E così l’abbazia di S. Eufemia, col suo vasto territorio posto in mezzo tra la diocesi di Nicastro a nord est e quella di Tropea che aveva la sua giurisdizione sulla parte occidentale del golfo lametino, in agro di Nocera, era condizionata dai due vescovi così come quella del Carrà lo era da parte dei vescovi di Nicastro e di Squillace. Spesso il papa dovette intervenire direttamente per sostenere l’elezione e l’obbedienza dovuta all’abate appena eletto. Così il 5 febbraio 1203 allorché Innocenzo III da Anagni chiedeva ai monaci “dissidentes” di accettare come abate il cappellano della stessa abbazia Giovanni. Due giorni dopo, il 7 febbraio, il papa si rivolgeva anche al popolo e al clero, soggetti alla giurisdizione dell’abbazia, affinché esprimessero la dovuta riverenza e giuramento di fedeltà all’abate Giovanni, appena eletto. Nella gerarchia dell’abbazia, dopo l’abate c’era il priore. Tutte le raccolte medievali di consuetudini delle abbazie testimoniano l’esistenza e l’importanza del priore che, pur non essendo un secondo abate, di fatto lo suppliva durante le continue sue assenze. Altra figura importante, la terza indicata dalle consuetudini dell’ordine gerarchico dell’abbazia, era il cantore, cioè il maestro del coro, responsabile del canto e dell’intero svolgimento della liturgia. Il posto d’onore del cantore era dovuto al ruolo preminente che la celebrazione corale aveva nella vita monastica.

C’era poi l’armarius (responsabile dell’armadio), vero e proprio bibliotecario, incaricato dei libri e della direzione dello scriptorium (laboratorio di scrittura). Egli vigilava sulla buona conservazione dei codici, provvedeva a classificare i libri per categorie e teneva aggiornata la lista dei volumi. Se l’abbazia non fosse stata abbattuta in modo totale dal terremoto del 1638, lo scriptorium, più che gli altri ambienti del grosso complesso monastico, sarebbe ora una evidente testimonianza del rilevante ruolo culturale svolto dai monaci di S. Eufemia, anche per la trascrizione e conservazione di testi antichi sia classici che cristiani. Il fatto poi, già sottolineato, che il primo consistente numero di monaci fondatori provenisse dalla Normandia e che anche molti di quelli che vi si insediarono successivamente fossero d’oltralpe, fa ritenere che “la cultura grafica di cui erano portatori e che potrebbero aver manifestato in una locale produzione libraria, intesa a far fronte alle necessità del nuovo monastero, non dovrebbe differenziarsi troppo dalla coeva cultura grafica transalpina. Sicché teoricamente, ma non del tutto inverosimilmente, un codice scritto nel monastero di S. Maria di S. Eufemia al tempo del Grantmesnil potrebbe mostrarsi paleograficamente e codicologicamente simile ad uno prodotto nella stessa epoca a St. Evroul-sur-Ouche in Normandia, da dove Roberto e i suoi monaci provenivano”. Certamente, come nella Sicilia governata da Ruggero II e da Guglielmo II circolavano codici di origine monastica anglonormanni, anche nelle grandi abbazie delle prima generazione come quella di S. Eufemia e di Mileto era presente una grande produzione libraria. Nell’ordine gerarchico, dopo il responsabile dello scriptorium, veniva il cellerario, responsabile della cantina, vale a dire di tutto quello che la comunità mangiava e beveva. Ogni sabato stabiliva il menù della settimana. Forniva al refettoriere (responsabile del refettorio) il pane e il vino, procurava ai cucinieri tutti gli alimenti (fave, legumi, formaggi) e, in particolare, doveva vegliare con cura sul sale, prodotto raro e costoso. Si occupava anche dei fratelli malati. Essendo il fratello più occupato, il cellerario era esentato dall’assistere a gran parte delle funzioni, compresi gli uffici notturni.

C’era poi il sagrestano, chiamato anche custode della chiesa. Egli alimentava le lampade, spazzava, lavava i calici, curava i paramenti, i messali e gli evangelari da utilizzare per la messa. Inoltre era incaricato della preparazione dei pani azzimi per confezionare le ostie per la messa, regolava l’orologio, riceveva le elemosine e le trasmetteva all’elemosiniere o al cellerario se si trattava di derrate alimentari. Nell’abbazia due monaci si dividevano il compito di garantire l’ospitalità. Il foresterario accoglieva i viaggiatori a cavallo, mentre i pellegrini a piedi li accoglieva l’elemosiniere. Come nelle altre abbazie anche a S. Eufemia c’erano dei poveri cosiddetti prebendati, cioè mantenuti interamente dall’abbazia. Un ruolo delicato lo aveva l’economo, responsabile degli abiti e della biancheria da letto oltre che di tutto ciò che era necessario per l’igiene. A lui spettava anche la custodia delle spezie utilizzate nell’erboristeria per preparare unguenti, decotti e tisane che utilizzava il frate infermiere. Per assicurare il buon funzionamento dell’abbazia c’erano tante altre figure che godevano di certe dispense o privilegi e si distinguevano dagli altri monaci qualificati come claustrali i quali dovevano seguire interamente la vita comune. Il primo abate Grantmesnil, l’abate-architetto, di cui è stato tramandato il carattere irruento e ambizioso, restò a S. Eufemia 17 anni a reggere la prima abbazia normanna della Calabria. Morì nel dicembre 1082. Sarebbe finito vittima del veleno propinatogli in qualche vivanda da un pasticciere arabo che era addetto al servizio dell’abbazia e che aveva avuto dei contrasti con lui. Lo splendore e la potenza dell’abbazia durarono per più di due secoli. Era ancora in auge quando il 30 gennaio 1255 un suo illustre monaco, fra’ Pietro, fu ordinato vescovo di Strongoli dal papa Alessandro IV (1254-1261). Dopo la guerra del Vespro, con l’avvento degli Ospedalieri, iniziava la sua parabola discendente dal punto di vista culturale e spirituale, anche se continuava ad essere una grande potenza economica.

L’abbazia, come abbiamo già precedentemente accennato, crollò col terremoto del 1638 che non lasciò in piedi alcuna fabbrica del complesso monastico. Il Balì Signorino Gattinara fece ricostruire la chiesa insieme a 28 case in muratura e molti pagliai a S. Eufemia Vetere. In questa chiesa furono portate le reliquie recuperate nelle macerie. Lo leggiamo nel già citato cabreo del 1655.

“…Come la detta Terra di Santa Eufemia la vecchia, per causa di uno grandissimo terremoto, che fu nell’anno 1638, a’ 27 di marzo, cascorno et si rovinorno diverse città et terre di questa Provincia di Calabria, con mortalità di più persone, come anco fu in questa Terra di Santa Eufemia la vecchia, avendo in detto tempo per causa di detto terremoto cascato tutti l’edifizi della sudetta Terra con haver rimasto morti sotto le pietre da’ doi cento persone in circa, et quelli che si salvorno furono da’ cinquanta in circa, la maggior parte persone povere che si ritrovavano in campagna faticando, et perché la chiesa che v’era in detta terra era grandissima a nave con diverse ale, che serviva nell’occorrenze de’ nemici per fortezza, havendo cascato le mura d’essa, del Palazzo e tutta detta terra, restorno li mobili, paramenti et reliquie, che in essa si ritrovavano sotto le pietre di detti edifitj, che con gran sforzo e diligenza se ne cavò qualche parte che hoggi se ritrovano nella chiesa dove ci ritroviamo di questa nuova terra di S. Eufemia…”.

Tra le reliquie recuperate c’era un pezzo di mascella di S. Eufemia che, insieme ad altre preziose reliquie, era custodito in una cripta contenente il cosiddetto tesoro dell’abbazia. In un cabreo del 1624 si legge di un braccio d’argento con dentro una reliquia di S. Giovanni Battista. Nel cabreo del 1655 si parla pure di un braccio d’argento con dentro una reliquia di S. Giovanni Battista e di una testa d’argento con dentro una parte del capo e una ciocca di capelli di S. Eufemia. Gabriele Barrio nella sua De antiquitate et situ Calabriae (1571) parla di un braccio di S. Giovanni, della testa di S. Eufemia e di un pezzo di braccio di S. Stefano protomartire.

A sua volta Padre Giovanni Fiore da Cropani nella sua Della Calabria illustrata (1691), oltre a reliquie di altri santi, parla del Vangelo di Luca e degli Atti degli Apostoli manoscritti. Il corpo dell’evangelista, nato ad Antiochia di Siria e morto in Bitinia tra il 124 e il 130 d. C., si troverebbe nella basilica di Santa Giustina a Padova dove, nel 2001, è stata aperta la bara di bronzo e gli esami di laboratorio hanno confermato che si tratta dello scheletro di un uomo siriano del 1 secolo d. C. Dobbiamo precisare che sia i Templari che gli Ospitalieri avevano raccolto in Terra Santa un’ampia collezione di reliquie ad alcune delle quali venivano attribuiti poteri straordinari come, ad esempio, la corona di spine che i sacerdoti templari il giovedì santo innalzavano per mostrare come fiorisse nelle loro mani. Per quel che riguarda più direttamente S. Eufemia, ricordiamo che ad Athlit, uno dei principali castelli templari tra Haifa e Cesarea, erano conservati, insieme ad altre preziose reliquie, anche il cuore e il corpo di Santa Eufemia “le cui virtù miracolose attiravano molti pellegrini in viaggio verso sud lungo la strada costiera che da Acri conduceva a Gerusalemme”. C’è da aggiungere che in alcuni periodi di crisi i Templari misero in vendita alcune reliquie. Altre reliquie venivano portate in processione penitenziale quando si verificavano gravi e prolungate siccità e carestie. Tra queste c’era una croce che si diceva ricavata dal legno di una tinozza in cui si riteneva si fosse bagnato Gesù. A questa croce venivano attribuiti poteri curativi e per questo frotte di malati si recavano nella chiesa templare di Acri dove la miracolosa reliquia era custodita e venerata. Tutte queste reliquie, insieme all’archivio dei Templari, furono salvate dopo i disastri del 1291 e rilevate insieme agli altri beni dei Templari dagli Ospedalieri nel 1312 e trasportate prima a Cipro e poi a Malta, ultimo quartiere generale dell’Ospedale nel Mediterraneo, dove, come abbiamo detto, l’ordine si stabilì nel 1530.

Anche quelle di santa Eufemia fecero lo stesso percorso. Infatti, come leggiamo nel Procès des Templiers d’Auvergue (1309-1311), un testimone dichiarò di aver visto due reliquiari decorati in argento nella chiesa del Tempio di Nicosia, uno dei quali era quello di Santa Eufemia. Comunque, nella chiesa di S. Eufemia Vetere è attualmente murata una lapide del 1608 (recuperata nel 1899 tra i resti dell’abbazia dal propirtario terriero Giovanni Lento di Sambiase) che era stata posta nell’abbazia vicino alle reliquie in possesso dei cavalieri di Malta. In questa lapide, scritta in latino, si dice che dopo l’espugnazione dell’isola di Rodi da parte dei Turchi le reliquie di S. Eufemia e di altri santi furono trasferite nell’abbazia di S. Eufemia. Insieme alle reliquie furono trasferiti anche i testi sacri. Infatti salvare i libri era preoccupazione altrettanto grave quanto mettere al sicuro le reliquie. Tra questi libri conservati nel tesoro dell’abbazia non è escluso che vi fossero, se non davvero il Vangelo manoscritto di Luca e gli Atti degli apostoli, comunque qualcuna delle prime copie. Sappiamo, infatti, che forse nessuno degli evangelisti scrisse di suo pugno il proprio testo, ma, come avveniva in quei tempi, lo dettarono tutti e quattro a scribi professionisti. Anche di questi primi manoscritti non autografi originali non c’è traccia, in quanto, come tutti gli altri testi dell’antichità, erano redatti su supporti fragili: papiro o pergamena. E tra la redazione dei Vangeli da parte degli autori e la stesura dei manoscritti più antichi che possediamo passarono 2 o 3 secoli. Essi, infatti, risalgono al IV secolo, sono copie di copie e non si sa nemmeno se sono la riproduzione fedele degli originali. Perciò, se davvero nel sottosuolo dell’abbazia di S. Eufemia venisse fuori il vangelo manoscritto di Luca o, almeno, la prima copia di esso, sarebbe un evento storico di portata eccezionale. Comunque, è probabile che sotto i 4-5 metri di terra, depositatisi nell’abbazia dopo il terremoto e con le ricorrenti piene del torrente Bagni, ci sia parte dell’immenso patrimonio librario della ricca biblioteca insieme ai preziosi testi miniati dello scriptorium. Certamente nell’abbazia c’erano i classici antichi greci e latini, i padri della Chiesa, i libri del culto, della liturgia, messali, breviari, i libri dell’ufficio, i cosiddetti salteri per la liturgia delle ore, gli antifonari, gli innari, i collettari con i testi delle preghiere, i lezionari, i libri del Capitolo, i calendari, i martirologi, i codici con i Vangeli. Importantissimi anche per la conservazione della memoria storica i testi dell’amministrazione dei beni (platee, cabrei, inventari, cartolari).

Ma certamente più affascinante è il richiamo al suddetto tesoro dell’abbazia. Era una cripta in cui erano custoditi i manoscritti più preziosi insieme alle sacre reliquie. Erano custoditi nella cripta perché un monastero che perde le sue reliquie e i suoi testi simbolici è colpito nel più profondo, diventando un luogo senza storia, senza passato, senza memoria fondatrice. I libri conservati nel tesoro avevano un carattere sacro come le reliquie. Erano utilizzati nella liturgia soltanto in casi eccezionali, nella ricorrenza di grandi eventi.