Il castello normanno-svevo

La storia della piana lametina, oltre che dalle presenze monastiche dal periodo basiliano in poi, è stata segnata anche da continui scontri militari e dalla necessità di difesa dalle sempre più intense incursioni musulmane. Tutta la costa tirrenica, già a partire dal sec. VII, fu oggetto di assedi, invasioni e continue scorrerie provenienti direttamente dall’Africa o dalla Sicilia occidentale. Si trattava sia di contingenti di truppe organizzate dagli emirati e califfati, sia di comuni pirati e predoni, i cosiddetti razziatori saraceni. Questi sbarcavano, per lo più di notte, sulle coste saccheggiandole e lasciandosi dietro distruzione e morte. Le incursioni toccarono il culmine tra la prima e la seconda metà del IX secolo, allorché Amantea divenne sede di un emirato arabo e residenza di una piccola flottiglia di imbarcazioni che partivano da quel porto per assaltare altre città costiere, a cominciare dalla vicina Aiello che fu devastata nel 981. Gli assalti si ripetevano a distanza di poco tempo e quasi tutte le città bizantine subirono occupazioni, tanto che ai primi del sec. X una buona parte della Calabria era in mano ai saraceni, se pure episodicamente. La conseguenza più grave fu l’abbandono dei litorali da parte delle popolazioni.

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Il Castello di Nicastro

Si ricorda in particolare l’assalto compiuto da Ibrahim ibn Ahmad nel 901-902 sulla costa lametina divenuta un sistematico campo di battaglia nella sfida tra arabi e bizantini. Altre terribili incursioni saracene, oltre a quelle dell’850, 867 e 876 si ebbero nel 929, nel 938, nel 969, nel 974 e nel 985. In particolare nel 929 una spedizione guidata da un certo Sâbir, un eunuco slavo dei musulmani d’Africa, conquistò anche paesi posti più in alto, come Maida e Tiriolo, compiendo massacri e facendo molti prigionieri. Proprio a partire dal IX secolo, quindi, col diffondersi dell’Islam nel Mediterraneo, si venne a delineare la terza forza operante nell’alto medioevo nella terra che, ormai dall’VIII secolo, aveva assunto il nome di Calabria, prima attribuito alla penisola salentina abitata da Messapi e Salentini. Essa era politicamente divisa fra Longobardia minor (principati longobardi) nella parte settentrionale con i Gastaldati di Cassano, Laino e Cosenza e un’area centro-meridionale bizantina, separate da un confine fluttuate cui faceva da riferimento la roccaforte di Amantea. C’erano inoltre degli insediamenti islamici i cui punti di riferimento erano le colonie-emirati di Amantea, Tropea, Squillace e Santa Severina.

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Il Castello di Nicastro

Il castello normanno-svevo di Nicastro, con i suoi imponenti ruderi, rappresenta la testimonianza del ruolo avuto dalla città, dal medioevo in poi, nelle varie lotte dinastiche che interessarono il Mezzogiorno. La data esatta della sua costruzione non la conosciamo. Ma è certo che il maniero è stato eretto dai Normanni nella seconda metà dell’XI secolo, insieme a quelli di Maida, Feroleto e Vibo per proteggere la piana. Esso fu innalzato nella parte alta del centro abitato, su una precedente struttura fortificata, sorta certamente allorché fra VIII e IX secolo, ancor prima della riconquista bizantina, “centri fortificati interni (χάστρα) qualificarono i siti, che diventeranno punte emergenti della Calabria medievale. Sorgono lontani dal mare su speroni di roccia tagliati da strapiombi, al limite di zone di potenziale sviluppo o controllo di antichi percorsi etnici e del collegamento viario col Nord. Sono tutti abitati già difesi dalla loro posizione, sorti in periodo di pace”. Proprio come nel caso di Nicastro. Infatti, come riferisce il Malaterra, quando nel 1057 il Guiscardo occupò Nicastro, poté impadronirsi di una rocca fortificata dopo essere venuto a patti con i difensori. Il castello non è citato nel diploma di fondazione dell’abbazia benedettina (1062), mentre è certo che vi fu ospitato per due settimane il papa Callisto II (1119-1124) nel mese di dicembre del 1121. Il papa, che il 5 settembre era a Salerno per rappacificare i fratelli normanni Guglielmo e Ruggero, scese poi in Calabria. Il 3 novembre sostò ad Amantea e ai primi di dicembre era nella piana di S. Eufemia. Il 9 dicembre si fermò a Nicastro dove, su richiesta del re dei Franchi Ludovico, sottoscrisse la bolla di conferma dell’unione delle due chiese “Novionensis et Tornacensis”.

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Il vescovo di Nicastro, Enrico, approfittò dell’occasione per far consacrare dal papa la nuova cattedrale fatta costruire nel 1100, al posto di quella bizantina, su sollecitazione del papa Urbano II, dalla principessa normanna Emburga che vi fu sepolta alla sua morte mentre era ancora in costruzione. Questa cattedrale normanna fu ripetutamente danneggiata dai terremoti dei secoli successivi e poi abbattuta definitivamente da quello del 1638. La terza cattedrale, quella attuale, fu fatta costruire tra il 1640 e il 1642 dal vescovo Giovan Tommaso Perrone (1639-1677). Nel mese di gennaio 1122 Callisto II era a Crotone dove celebrò il sinodo, presente anche l’abate di S. Eufemia Uberto. I normanni, dunque, che importarono dalla loro terra di origine tecniche e soluzioni innovative per quanto riguarda le costruzioni militari, scelsero la preesistente rocca di Nicastro, in posizione dominante sulla piana, per innalzare il castello che aveva lo scopo, come in altre zone, di assicurare i risultati della conquista. Anche con gli svevi (1195-1266), subentrati ai normanni (1057-1195), il castello continuò ad avere un importante ruolo di controllo nella piana, segnando una tappa essenziale della Popilia verso Reggio a sud e verso Cosenza a nord.

L'imperatore Enrico VI il Severo (1165-1197), figlio di Federico Barbarossa, che aveva sposato Costanza d’Altavilla e aveva conquistato così il regno di Sicilia, fu a Nicastro nel 1195 come risulta dal diploma rilasciato “apud Neocastrum” a favore dell’abate Gioacchino da Fiore e del suo ordine florense. Dalla sottoscrizione del diploma ricaviamo che a Nicastro in quell’occasione erano presenti noti ed influenti personaggi di corte come Enrico Marescalco, Ludovico di Baviera, Enrico Picerna, Roberto de Duris, Riccardo conte di Fondi. Nel 1198 si era dovuto recare a Nicastro e tenervi corte l’arcivescovo di Palermo Bartolomeo, in qualità di ‘familiaris regis’, per dirimere una contesa tra l’abate Gioacchino e i monaci greci di Caccuri che avevano commesso degli abusi ed usurpazioni nei terreni della Sila a danno dell’archicenobio florense di S. Giovanni in Fiore. E’ importante segnalare che, a conferma della partecipazione dell’abbazia di S. Eufemia alle vicende politiche e religiose del tempo, nella suddetta vertenza venne scelto a partecipare, in qualità di commissario papale ed imperiale, l’abate di S. Eufemia, Riccardo. E nel 1203 i monaci di S. Eufemia scelsero come loro abate quello di Corazzo.

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A sua volta Federico II, che nel maggio 1223 dimorò a Maida, come risulta da un diploma datato “apud Maidam”, nel 1227 era a Nicastro dove dimorò poi a più riprese durante il suo regno. Riscattato, come abbiamo visto, per volere di Federico II dalla dipendenza dell’Abbazia, il castello risulta iscritto nel 1239 nella lista dei Castra exempta, ossia dei castelli preesistenti riscattati, sottratti ad altri e soggetti alla sola e diretta autorità del re, mentre quelli costruiti direttamente ex novo dai normanni erano detti castra nostra. Per tutto il periodo svevo fu adibito a sede del tesoro di Stato, deposito delle imposte di tutta la Calabria e di parte della Sicilia. Da una lettera del 1239, riportata nella già citata Historia diplomatica di Federico II, risulta che in quell’anno l’imperatore fece restaurare la rocca del castello e il tetto del grande palazzo reale che possedeva in contrada Carrà, in nemore Neocastri, ossia in mezzo alla estesa foresta dall’imperatore dichiarata ‘bosco regio’, essendo una grande riserva di caccia di cui Federico era amantissimo, tanto da farvi diffondere appositamente il fagiano. Il palazzo di Federico II (palatium nemoris Neocastri detto anche palatium nemoris de Carrà), da cui ha preso il nome l’attuale contrada Palazzo, sorgeva in una vera e propria isola di natura e fiorente vita mediterranea, con oliveti e vigneti, coltivazioni di cannemele, fattorie e masserie, distese di pascoli e allevamenti di bestiame, circondati da macchie boschive in cui il re praticava la caccia coi falconi “la prima caccia mediante tali uccelli introdotta in Italia”. Un vero e proprio palacium et locum solaciorum che precorreva il rinascimentale “casino di delizie”. Era costruito lapidibus et calce, con le copertura dei tetti in legname, gli astraca (pavimenti) in pietra e calce e le scale lapidee, come si ricava dalle Litterae responsales con cui Federico II ne affidava la cura Majori de Planctatone secreto Messam.

Nel 1240, anno in cui la città di Nicastro insieme a Crotone, Cosenza e Reggio, venne invitata ad inviare “duos nuncios ad colloquium apud Foggiam in proximo festo Palmarum”, per definire la permuta del castello già concordata nel 1231, Federico II fece rinchiudere nel maniero per due anni il figlio primogenito ribelle Enrico VII di Hohenstaufen, re di Germania (1211-1242). Infatti c’era un rapporto conflittuale tra i due che avevano un differente modo di vedere la gestione dello Stato. Federico riteneva che dovesse andare ben oltre gli interessi nazionali ed assumere una dimensione sovranazionale, imperiale. Enrico, invece, tendeva a favorire gli interessi germanici nella convinzione che l’avvenire della dinastia fosse nella terra d’origine. Influenzato dai principi germanici e dalle città che tendevano a consolidare la propria autonomia, contravvenne alle disposizioni imperiali e fu protagonista di una vera e propria ribellione, stipulando anche un’alleanza difensiva con la Lega lombarda, considerata il peggiore nemico dell’impero e della casa di Svevia. Tenne inoltre anche le parti dei liberi comuni italiani e del papa contro il proprio genitore. Tutto ciò voleva dire alto tradimento. Così Federico II nella dieta di Magonza del 15 agosto 1235 ne ordinò la deposizione e l’arresto nella fortezza di Heidelberg. Enrico fu poi rinchiuso in diverse fortezze del regno di Sicilia, tra cui il castello di Nicastro. La storia, che in queste circostanze è spesso inquinata dai miti, racconta che Enrico finì i suoi giorni suicida a soli 31 anni, il 12 aprile 1242. Quel giorno stava percorrendo una tortuosa strada di montagna mentre era trasferito da Nicastro alla volta del castello di Martirano, uno dei tanti cambi di prigione. Improvvisamente, sottraendosi alla vigilanza delle guardie che lo scortavano, si gettò da cavallo sfracellandosi in un dirupo. I soccorritori lo raccolsero già morto. Federico II diede ordine di seppellire il corpo nel duomo di Cosenza, avvolto in mantelli regali e con tutti gli onori di un re.

Con l’avvento degli angioini (1266-1441), che stremarono la Calabria con oltre un secolo di malgoverno, il castello fu restituito da Carlo I d’Angiò all’abate dell’abbazia di S. Eufemia. Lo stesso Carlo I fece effettuare degli interventi di restauro, potenziando le strutture difensive con l’aggiunta di mura e nuove torri sul lato sud, una delle quali ancora visibile con la sua forma semicircolare all’esterno. Altre riparazioni furono effettuate durante il periodo aragonese (1442-1734) soprattutto sotto Carlo V. L’evento straordinario si verificò proprio allorché Carlo V, reduce dalla spedizione in Africa contro i turchi, culminata con la conquista di Tunisi e la liberazione di circa 20.000 schiavi cristiani, il 5 novembre 1535, provenendo da Monteleone, fece sosta a Nicastro accolto in pompa magna dal feudatario conte Ferdinando Caracciolo, dal vescovo Nicola Capranica, dai due sindaci Antonio Oliverio e Nicola Vidimaro, dal popolo e dal clero che lo accompagnarono con un lungo corteo per la principale via cittadina fino al castello in cui alloggiò. Qui il re ricevette omaggi e donativi tra cui quello eccezionale “di un gentiluomo di Taverna che gli presentò una mula col polledro che aveva partorito col manto pezzato in bianco, nero, rosso e melato”. Il re partì poi per martirano da cui proseguì per Rogliano.

Il conte Caracciolo, nipote di quel Marcantonio Caracciolo che aveva ricevuto il feudo nel 1496 da Ferrante II, quale premio per la sua fedeltà durante la guerra contro Carlo VIII, a ricordo di quella memoranda visita fece murare una lapide di marmo sulla porta grande del castello, dove restò fino alla prima metà del sec. XIX. Nello stesso periodo il castello fu inserito nel piano difensivo generale per l’Italia meridionale approntato dal viceré don Pietro da Toledo e potenziato dal suo successore don Parafan de Ribera, duca di Alcalà. Questo piano, emanato nel 1563, prevedeva la costruzione lungo le coste meridionali del Regno di una serie di torri sia di avvistamento che di difesa, in vista l’una dall’altra, in modo da costituire una ininterrotta catena di fortificazioni costiere affinché “qual prima scorgesse il pericolo, col fuoco dimostrando all’altre, in meno di poche ore ne venisse avvisato tutto il Regno.” Contemporaneamente, a partire dal 1564, lungo il litorale, furono erette le torri costiere di avvistamento (dette anche cavallare) di Corica e di S. Giovanni in territorio di Amantea; di Pietra della Nave e di Savuto in territorio di Nocera; di Rupe o Torre del Lupo in territorio di Falerna; di Capo d’Ogliastro (detta anche di Capo Suvero o Scapuzzata perché decapitata nella parte superiore dal terremoto del 1638), Torre Spineto (tra Capo Suvero e Capo Condurro), di S. Caterina (o Capo Condurro) in territorio di Gizzeria; Torre Bocca dell’Amato e Torre Lacconia in territorio di Maida; Torre di Tartina e di Mezza Praja in territorio di S. Eufemia. In quest’ultima zona centrale del golfo fu costruito intorno al 1550 il poderoso Bastione dei cavalieri di Malta. Questa grande torre quadrangolare, che aveva scopo prettamente difensivo, fu chiamata così non solo perché era stata edificata nel territorio di pertinenza dei cavalieri di Malta, ma anche perché fu loro affidata, anche se integrata nell’intero sistema di difesa della piana. “Le torri venivano divise in cavallare, o di allarme, e di difesa vera e propria. Le prime erano dette in quel modo per il compito specifico che dovevano assolvere, ed erano affidate a persone fornite di cavallo onde rapidamente portare l’allarme al più vicino posto militare. Nel contempo, con fuochi, o suono di campana, secondo l’ora del bisogno, si dava l’allarme nella zona, specie ai contadini, perché in tempo vi cercassero rifugio, o lo trovassero nei boschi vicini, e dal segnale passato di torre in torre l’avviso corresse fin dove si presumeva il danno potesse essere recato. I cavallai, che venivano eletti in pubblico parlamento dall’amministrazione locale con l’intervento del Governatore del paese nel cui territorio la torre era situata, duravano in carica tre anni, e venivano suddivisi in ordinari e straordinari. Gli uni e gli altri ricevevano ordini dal torriere, consegnatario per atto notarile della torre stessa. Governati da disposizioni rigorose, ma anche protetti da particolari condizioni di favore, erano tutti organizzati agli ordini di un capo, detto sopracavallaro, che non prendeva parte alle battute di allarme. Per la loro opera di vigilanza, i cavallai si dividevano la marina in sezioni, in ognuna delle quali, percorrendola a due a due, di giorno e di notte, dando fiato ai corni di cui erano dotati, o sparando colpi di archibugio, davano avviso ai torrieri della m inaccia di sbarco. Cavalcando nell’entroterra, là dove non poteva giungere la luce dei fuochi e il suono delle campane, portavano l’allarme tra i contadini, nelle case coloniche e nei piccoli abitati”. Nell’ambito di questo progetto difensivo il maniero di Nicastro fu trasformato in un poderoso complesso militare.

Prima di questa utilizzazione era stato a disposizione dei feudatari succedutisi a Nicastro a partire dai Caracciolo quando nel 1417 la regina Giovanna II (1414-1435) concedeva la città, già infeudata dal 1338 ad Antonio Moccia, al suo favorito Ottino Caracciolo. Nel 1420 la città fu conquistata da Giovanni da Ixar, viceré di Calabria, per conto di Alfonso d’Aragona, ottenendola in feudo. Nel 1424 fu accolta in demanio da Luigi d’Angiò. Nel 1427 Ottino Caracciolo fu reintegrato nei propri beni feudali. Ma nel 1460 la città fu nuovamente confiscata al ribelle Luigi Caracciolo, fratello di Ottino, ed annessa al demanio. Nel 1480 fu concessa da Ferrante I al figlio, Ferdinando d’Aragona, futuro duca di Montalto. Nel 1482 fu costituita in contea con l’aggregazione di Sambiase, Zangarona, Feroleto (con Serrastretta e Amato), Maida (con Cortale, Curinga e Jacurso) e Lacconia. Nel 1483 Ferrante I diede la contea all’altro figlio secondogenito Federico d’Aragona (futuro re di Napoli) insieme al principato di Squillace, in occasione delle nozze con Isabella del Balzo. Nel 1487 Federico d’Aragona retrocedesse la contea a demanio. Nel 1496 da Ferrante II ne fu investito Marcantonio Caracciolo, marito di Donna Giovanna Piccolomini. Questo conte viene ricordato perché promosse la venuta a Nicastro dei Domenicani, facendo appositamente costruire il loro convento che avrebbe rivestito un ruolo importantissimo dal punto di vista economico-sociale e culturale nei secoli successivi. Fuori le mura della città di Nicastro c’era allora una chiesetta sotto il titolo della SS. Annunziata con annessi locali per il ricovero dei forestieri, che costituivano quello che era chiamato S. Hospitaletto della SS. Annunziata. Esso era dotato di un latifondo gravitante nei suoi dintorni. Nel 1501 il conte Caracciolo, visto che sia la chiesetta che l’Ospitaletto andavano sempre più in rovina, decise di erigere una chiesa al posto di quella vecchia cappella e di trasformare l’ospitaletto in convento. Il fine era quello di dotare la città di un centro monastico di studi che egli volle affidare ai Domenicani. Era allora vescovo a Nicastro mons. Francesco di Roccamura (1497-1504). Ottenuto il suo consenso, il conte provvide, d’intesa con il Maestro Generale dei Domenicani, a fare richiesta nell’anno 1502 al papa Alessandro VI di costituire a Nicastro una comunità di frati predicatori. Ricevuta l’autorizzazione provvide a garantire come patrimonio tutte le rendite della nuova chiesa e del vecchio ospitaletto.

Il conte Caracciolo ebbe solo una figlia Donna Faustina che andò sposa a Don Alfonso Caracciolo, conte di Oppido. Ella ebbe due figli: Don Giovanni Battista e Don Ferdinando. Essendo morto il primogenito senza eredi, la contea andò al secondogenito che divenne anche duca di Feroleto. Fu lui che il 5 novembre 1535 ospitò nel castello l’imperatore Carlo V che ritornava dalla spedizione di Tunisi. Don Ferdinando Caracciolo, che aveva accumulato molti debiti, metteva in vendita per 14mila ducati la terra di Feroleto, feudo dotale della moglie Isabella Spinella, riservandosi il diritto di ricompra al medesimo prezzo. Poi donava al figlio Alfonso, legittimo successore, in occasione del matrimonio che questi contraeva con Laura Carrafa, sia la città di Nicastro che il diritto di ricompra della terra di Feroleto. Però, insieme ai feudi lasciava in eredità al figlio anche fortissimi debiti ed ipoteche. Don Alfonso morì lasciando due figli, Don Ferdinando e Donna Isabella, a cui furono assegnati rispettivamente il ducato di Feroleto e la contea di Nicastro. Donna Isabella, che aveva sposato Don Mariano Caracciolo di Santobono, il 29 novembre 1607, per gravi difficoltà economiche, vendette la contea di Nicastro a Don Carlo d’Aquino, principe di Castiglione e conte di Martirano. Già da tempo Carlo d’Aquino aveva avviato un giudizio presso il Tribunale del Regio Sacro Consiglio contro Ferdinando Caracciolo, pretendendo che il territorio di Serrastretta, ricadente nel distretto del ducato di Feroleto, appartenesse alla contea di Martirano. La causa si trascinò senza esito per qualche anno finché, morto il duca di Feroleto Don Ferdinando, il dominio di questo paese era passato alla sorella Donna Isabella. Nei confronti di costei il conte d’Aquino iniziò tutta una serie di gravi vessazioni e minacce che spinsero Isabella a chiedere e ad ottenere dal Pro Presidente del Regio Sacro Consiglio Giovanni Sanchez de Luna di poter vendere al conte d’Aquino tutto il suo feudo, comprendente, oltre a Nicastro e Sambiase, anche il casale di Serrastretta, la Terra di Feroleto e tutti gli altri “casali o sia ville abitate ed inabitate, castelli o sia fortezze, case o palazzi, orti, giardini, taverne, mulini, forni, gabella, dogana, scannaggio, portolania, fida e diffida”. L’atto di vendita fu stipulato a Napoli dal Notar Giovanni Simone della Monaca, munito di Regio Assenso del Tribunale della Regia Camera del 10 dicembre 1611. Il prezzo: 33.500 ducati.

Il conte Carlo d’Aquino, quindi, riuniva nella sua persona i titoli di conte di Martirano, principe di Castiglione e Feroleto e signore di Nicastro. Il territorio della contea era ora vastissimo, andando dal Savuto all’Amato, da Soveria al mare, dalla costa tirrenica alle prime propaggini della Sila, con le sole esclusioni di Gizzeria, Nocera e S. Eufemia che erano sotto la giurisdizione dell’Ordine dei cavalieri di Malta. Proprio sotto Carlo d’Aquino il castello di Nicastro fu danneggiato parzialmente dal terremoto del 1609. Fu poi colpito in maniera grave da quello del 1638 che seppellì sotto le macerie il nuovo principe Cesare d’Aquino. Fu praticamente abbandonato dopo l’altro disastroso terremoto del 1783. Fino a quella data, come sostiene Pietro Ardito, la rocca del castello fu adibita a carcere. Dopo il sisma i detenuti furono trasferiti nella chiesa di S. Lucia. L’ultima feudataria, Donna Vincenzina d’Aquino Pico, per 10 carlini annui concesse il suolo interno a Don Ivone Spada. Lo stesso suolo interno venne in seguito in possesso della famiglia Francica di Vibo, poi dell’avv. Froggio il quale nel 1943 lo vendette alla famiglia Furci di Nicastro. Il suolo esterno, invece, dopo essere stato dato per anni in enfiteusi, è stato in gran parte occupato abusivamente per costruirvi le case del quartiere di S. Teodoro. Il castello normanno-svevo, oltre ad essere il simbolo di Nicastro, ha sempre esercitato un’attrattiva particolare per i molti viaggiatori stranieri che dal ‘700 in poi hanno visitato la Calabria. A tutti, come scriveva nel suo resoconto di viaggio il già citato Henry Swinburne nel 1778, il castello di Nicastro appariva allora come “un romantico rudere in posizione pericolante sul letto di un fragoroso torrente che scorre giù in una valle buia e boscosa”.