IL RUOLO DEL LAMETINO E DELLA CHIESA LOCALE NEL RISORGIMENTO

Sanfedisti e briganti contro l’occupazione francese

In occasione della ricorrenza del 150° dell’unità d’Italia ha predominato, nelle rievocazioni scolastiche, nei convegni e nei dibattiti tenutisi anche in Calabria, l’insistenza sui noti fatti generali senza ricostruzioni serie della storia locale, che superassero le generalizzazioni contenute nei manuali. In particolare non si è messa in luce il ruolo svolto dalla chiesa locale. Trascurare questo aspetto significa non capire il clima politico, sociale, culturale e religioso in cui operarono i protagonisti calabresi e lametini del Risorgimento. Ma soprattutto significa non capire appieno le motivazioni per cui il 1861, anno della unificazione del Regno, oltre che l’anno in cui si compie il gran moto del Risorgimento, è quello in cui esso comincia ad invischiarsi nella grande palude di quello che è stato chiamato “Antirisorgimento”. Infatti, il carattere antirisorgimentale di conquista del Sud da parte della monarchia sabauda si rivela immediatamente dopo che le camicie rosse sono scomparse, sostituite dalle uniformi blu dei soldati del re, nella cosiddetta “guerra del brigantaggio”: in realtà una repressione violenta delle plebi contadine schiacciate con la connivenza dei baroni e il ruolo ambiguo della chiesa. La prima questione da mettere in risalto, per quanto riguarda la storia locale, è: quando anche in Calabria e nel lametino è nata l’idea di nazione italiana e quand’è che si è formata questa idea come sentimento popolare, come coscienza collettiva di identità del nostro Paese? Insomma quando è iniziato da noi il movimento risorgimentale? C’è una corrente di pensiero che lo fa risalire alle insorgenze antifrancesi e cioè al cosiddetto triennio giacobino (1796-1799) e alla successiva decennale occupazione francese della Calabria (1806-1814).

Lamezia Terme

Regno di Napoli

Tutte le manifestazioni contro le truppe napoleoniche (le Pasque veronesi nel Veneto, il movimento Viva Maria in Toscana, la Santa Fede e il sanfedismo nel Regno di Napoli, il movimento guidato da Andrea Hofer in Tirolo ecc.,) ossia tutto il generale fenomeno dell’insorgenza antifrancese e la vasta reazione spontanea contro gli occupatori sarebbero la prova dell’esistenza della nazione italiana con un suo profilo ben delineato e una sua cultura specifica prima dell’unità. Gli storici dell’ISIN (Ist. Naz. Storia Insorgenze) hanno parlato a questo proposito di nazionalità spontanea. Tutti gli insorgenti di questi movimenti antifrancesi erano definiti patrioti. Anche nel regno di Napoli erano considerati patrioti dai Borboni, mentre i francesi li indicavano col termine briganti che avevano coniato a proposito degli oppositori antinapoleonici, realisti e cattolici, della Vandea. Che cosa accadde nel movimento sanfedista e poi nel decennio francese? Mentre pochi intellettuali o esponenti di una borghesia agraria emergente inneggiavano agli ideali della rivoluzione francese, il popolo si schierò a difesa del trono borbonico e della chiesa contro gli invasori francesi. Questi borghesi o proprietari, chiamati nei catasti onciari “civili possidenti”, avevano ingrandito i propri patrimoni fondiari con le aste della Cassa Sacra istituita dopo il terremoto del 1783. Essi poi nel 1799 avevano piantato l’albero della libertà, convinti del trionfo del movimento repubblicano. Ma dopo la vittoria del cardinale Ruffo, per restare alla guida delle Università (com’erano allora chiamati i comuni), furono pronti a rinnegare la bandiera repubblicana e a ostentare la fedeltà al re borbonico.

Il popolo rimase estraneo al movimento repubblicano, dimostrando fedeltà al re. E’ importante sottolineare che la sollevazione popolare contro i francesi prese l’avvio dai paesi di montagna: innanzitutto da Conflenti e Scigliano. Intere masse di popolani affiancarono i cosiddetti capimassa, seguendo le truppe del cardinale Ruffo fino alla completa liberazione del Regno. I capimassa più noti erano Nicola Gualtieri (detto Panedigrano) di Conflenti, Giacinto Costanzo (detto il Niurello) di Pedivigliano, Giuseppe Rotella (detto il Boia) di Tiriolo, Paolo Mancuso (detto Parafante) di Martirano, Albano Ruperto (detto Tingheo) di Conflenti, Marco Gigliotti di Decollatura, Giacomo D’Urso di Cerrisi, Giosué Mazza di S. Pietro Apostolo, Giuseppe Antonio Fazio Gorello di Serrastretta, Domenico Bonacci e Carmine Janni di Motta S. Lucia, Vincenzo Zampini di Pedivigliano, Carmine Caligiuri di Soveria, Angelo Paonessa, Arcangelo Scozzafava, Saverio Pascuzzo, Angelo e Giuseppe Colosimo, Marcello e Ottavio Oliverio tutti del territorio montano del Reventino.

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Briganti

La stessa cosa avvenne in occasione della seconda occupazione francese a partire dal marzo 1806 con la rivolta di Soveria Mannelli (i cosiddetti Vespri soveritani). I francesi, più che truppa di liberazione si dimostrarono truppa di occupazione. Saccheggi, incendi, requisizioni, stupri, profanazione della chiese e altri mezzi brutali costituivano dei veri e propri insulti per le nostre popolazioni che scelsero la strada del brigantaggio. Gravi furono le conseguenze soprattutto nel campo religioso: vescovi assenti, chiese abbandonate, spogliate, utilizzate dai soldati come ricoveri per le truppe e stalle per i cavalli. Nella visita pastorale del 1810 del vicario vescovile di Nicastro nei vari paesi della diocesi è registrato il grave stato di degrado e abbandono di tutte le chiese piccole e grandi: squallore, assenza di suppellettili e arredi sacri, altari profanati. E, soprattutto, in ogni località scompiglio sociale e assoluto rilassamento etico e religioso. Ricordiamo anche il ruolo avuto dal clero, sia secolare che regolare, nella lotta contro gli occupatori stranieri a fianco della popolazione e dei cosiddetti briganti. Inoltre non bisogna dimenticare che, insieme alle leggi di eversione della feudalità, i francesi attuarono la soppressione della cosiddetta manomorta ecclesiastica. Essa prevedeva l’incameramento dei beni di conventi e monasteri soppressi. Questi beni, messi all’asta, finirono nelle mani dei grandi proprietari fondiari così com’era successo già nel 1784 con la Cassa Sacra. Le conseguenze della chiusura dei conventi furono negative soprattutto dal punto di vista culturale e religioso. Infatti, nei conventi, bene o male, si impartiva una certa istruzione alla gioventù. Per ovviare a tanto male i vescovi si videro costretti ad aprire i seminari anche ad elementi che non avevano alcuna intenzione di abbracciare lo stato ecclesiastico.

Il Concordato del 1818 e i vescovi antiliberali. La lotta alla Carboneria e alla Massoneria

Un altro evento storico importante da non dimenticare fu il Concordato firmato nel 1818 dal re di Napoli e dal Papa, che dava un nuovo corso ai rapporti tra Stato e Chiesa nel Sud. In particolare, la Bolla papale “De utiliori” del 28 giugno 1818 prevedeva la soppressione della diocesi di Martirano che fu aggregata a quella di Nicastro. Ma, quel che è più importante sottolineare, è che il Concordato legò lo Stato e la Chiesa in un patto controrivoluzionario e portò a delle modifiche strutturali e organizzative destinate ad incidere profondamente e a lungo nel mondo religioso-ecclesiastico meridionale. Il governo borbonico, in cambio della sua rinuncia alle più esasperate istanze giurisdizionalistiche, ebbe via libera nella selezione delle gerarchie ecclesiastiche e nel controllo politico e disciplinare del clero. I vescovi divennero di nomina regia, mentre il papa doveva solo limitarsi a consacrare e a confermare i prelati scelti dal re a reggere le diocesi del Regno. Gli stessi vescovi erano obbligati a giurare fedeltà al re, diventandone la ‘longa manus’ anche come funzionari di polizia. Il primo vescovo di nomina regia a Nicastro è stato Gabriele Papa (1819-1824). Fu un solerte esecutore della Bolla papale “Ecclesiam” (13 settembre 1821), che era un vero e proprio interdetto religioso in cui veniva condannata la Carboneria e comminata la scomunica ai carbonari e a coloro che non li denunciavano alle autorità. Gabriele Papa, di conseguenza, ordinò ai preti carbonari di fare immediatamente l’abiura. Inoltre provvide a schedare tutti i maestri e gli intellettuali liberali, attuando una precisa disposizione del Ministro di Polizia.

Questo vescovo, che era di Vietri sul mare, si dichiarò contrario alla Costituzione concessa da Ferdinando I nel 1821 e, per sfuggire alle minacce di rappresaglie nei suoi confronti, fu costretto a fuggire da Nicastro in piena notte via mare. Il successore di Gabriele Papa fu Nicola Berlingieri dei marchesi di Crotone, che resse la diocesi per ben 29 anni, lasciando una impronta determinante. Berlingieri portò avanti l’attività antiliberale del suo predecessore, ingaggiando una lotta serrata contro la Carboneria e la Massoneria che si erano infiltrate capillarmente anche tra il clero della diocesi. Il liberalismo fu combattuto da Berlingieri sia sul piano teorico e culturale sia sul piano dei risvolti politici e pratici. Infatti, egli attribuiva proprio alle idee liberali il degrado etico e la grave involuzione religiosa della diocesi. In quest’azione si inquadra un suo schedario riservato in cui egli, con scadenza quotidiana, schedò tutti gli ecclesiastici della diocesi. Si tratta di un documento molto importante per comprendere il clima politico e religioso del tempo. Questo schedario, intitolato “Stato del clero della diocesi di Nicastro”, è una sorta di diario-registro in cui Berlingieri annotava di suo pugno o faceva annotare dal suo vicario tutto quanto gli veniva riferito o emergeva dalle sue inchieste sul modo di vivere degli ecclesiastici nelle varie parrocchie della diocesi per un periodo di ben 7 anni, dal 1827 al 1834. Questa rubrica riservata era in sintonia con l’azione dei vescovi meridionali di quel periodo, ai quali il Concordato del 1818, come abbiamo detto, attribuiva compiti di vigilanza sulla società dal punto di vista non solo religioso, ma anche civile. In questo diario erano schedati ben 316 ecclesiastici, compresi i canonici della cattedrale. Di essi ben 50 risultavano affiliati alla Carboneria, cioè quasi il 16%, cifra più alta della percentuale delle province meridionali (15,3%) calcolata dal Ministero di Polizia. Alcuni, tra cui un paio di canonici della Cattedrale di Nicastro e un certo numero di sacerdoti appartenenti alle famiglie possidenti o borghesi, erano schedati come “maestri” o “gran maestri” delle varie logge o vendite.

Per avere un’idea del numero veramente esorbitante dei preti nei vari paesi della diocesi in rapporto agli abitanti ecco alcune cifre ricavate da una relazione vescovile di questo periodo. A Nicastro 36 preti su 7862 anime, a Sambiase 12 preti su 4050 anime, a Martirano 20 preti su 2600 anime, a Conflenti Inferiore 20 preti su 2450 anime, a Feroleto 8 preti per 1050 anime. Ritornando alla carboneria, c’è da dire che questa società segreta fu sempre osteggiata in maniera durissima dalla Chiesa non solo perché in essa militavano tanti massoni condannati poi dal papa Pio VIII nel 1830 con l’enciclica “Traditi humilitati”, ma anche perché la carboneria e la massoneria sostenevano i plebisciti per cui solo la volontà popolare poteva legittimare i governi, mentre la Chiesa era ancora sostenitrice del diritto divino del potere. Per capire ancora meglio il clima politico che regnava a Nicastro nel periodo di cui ci occupiamo, ricordiamo che nel 1813 il vicario vescovile Raffaele Maria Mileti fu trucidato dai carbonari nicastresi a soli 37 anni davanti alla chiesa di S. Francesco perché si era reso responsabile delle delazioni contro i locali carbonari, facendone anche arrestare il capo Vincenzo Federici, detto Capobianco.

La rivoluzione del 1848

Nei mesi di marzo e aprile del 1848 in diversi paesi montani del comprensorio nicastrese (Serrastretta, Decollatura, Soveria Mannelli, Nocera, S. Mango), come in tanti altri paesi calabresi, i contadini insorsero contro le gabelle. Il 15 maggio, mentre era in corso la prima guerra d’indipendenza alla quale partecipavano anche contingenti di truppe napoletane guidate da Guglielmo Pepe, scoppiava la grande sommossa popolare a Napoli. Il re, con un colpo di stato scioglieva il parlamento, aboliva di fatto la Costituzione da poco concessa e avviava una spietata reazione contro i liberali i quali avevano tentato di collegarsi con i movimenti insurrezionali contadini scoppiati in Calabria. Per capire meglio la portata sociale di ciò che accadde in quell’anno nel territorio lametino bisogna tenere presente che i due anni precedenti erano stati anni di gravissima carestia e di fame. Il popolo viveva in uno stato di grave povertà. Come denunciava il vescovo, enorme era il numero dei mendicanti sia nei paesi che nelle campagne. Come risulta da alcune ‘Note dei poveri’, conservate presso l’archivio diocesano, il vescovo in quegli anni mensilmente distribuiva elemosine a più di cento famiglie. Benché l’esistenza fosse precaria, nondimeno il popolo doveva egualmente soddisfare le imposizioni fiscali. Particolarmente pesante e ingiusta si rivelava la tassa sul macinato introdotta dal governo borbonico a partire dal 1 gennaio 1827, che andava metà allo Stato e metà ai comuni. Essa, infatti, riguardava tutti i residenti, compresi i nullatenenti che in modo assurdo erano regolarmente iscritti nelle cosiddette liste di carico al pari dei possidenti.

Anche per questo si fece ancor più profonda nelle campagne la frattura fra contadini poveri (circa l’80% della popolazione) e i proprietari di terre (20% della popolazione). Su questo sfondo di malcontento e di miseria, di ostilità tra braccianti e proprietari, tra contadini poveri e galantuomini, esplose il 1848. Si trattò di un moto avviato dalla suddetta borghesia, ma, per la prima volta quasi inaspettatamente, ai due avversari in lotta (la monarchia borbonica e la borghesia) si affiancò la sollevazione contadina che però non ebbe alcuna connotazione politica. La rivolta era guidata da Francesco Stocco. Tra i suoi seguaci c’era il corpo delle Guardie Nazionali che era stato costituito con decreto regio in ogni comune proprio il 13 marzo 1848. Le guardie nazionali, venendo meno al giuramento al re, passarono nelle file dei rivoluzionari. La stessa cosa successe con le cosiddette ‘guardie d’onore’, corpo paramilitare alternativo a quello di leva di cui facevano parte gli esponenti delle ‘primarie famiglie’ in ogni provincia del Regno. Ebbene, questi rappresentanti della nobiltà, che con devozione e fanatismo avevano finora seguito la causa della dinastia borbonica, sposavano la causa liberale. Il generale Stocco si serviva di diversi capitani tra cui si impose per autorevolezza e capacità organizzative Giovanni Maria Cataldi, capo del comitato rivoluzionario di Sambiase. Giovanni Nicotera, allora giovane ventenne, ma già affiliato alla loggia massonica guidata da Felice Sacchi, dal D’Ippolito e da Stocco, teneva i collegamenti col comitato rivoluzionario di Pizzo dove agiva lo zio Benedetto Musolino, fondatore alla fine del 1832 della setta dei Figliuoli della Giovane Italia. Un altro giovane sambiasino, cioè Giuseppe Maione, il cui padre Pasquale originario di Conflenti era iscritto alla Carboneria, fu prescelto, insieme ad altri quattro giovani sambiasini, per intercettare le regie poste ed interrompere così le relazioni tra la polizia e il generale Nunziante. Fu esiliato a Crotone per ben due volte.

Secondo la ricostruzione fatta da Francesco Fiorentino nell’elogio funebre del generale Stocco pronunciato nel 1881, i rivoluzionari erano circa 8000, di cui ben 3000 del distretto di Nicastro. Come sappiamo, mancò però il coordinamento, ci furono molte defezioni e così, nello scontro decisivo contro l’esercito borbonico guidato dal generale Nunziante, il 27 giugno presso il fiume Angitola, le truppe dei rivoluzionari subirono la disfatta. Molti fuggirono, molti furono arrestati. Stocco, insieme ad altri, riparò prima a Malta, poi a Genova, a Marsiglia e infine di nuovo a Genova dove erano confluiti tanti altri antiborbonici. Giovanni Nicotera con lo zio Musolino riparò prima ad Ancona e poi a Corfù. Tutti quelli che non riuscirono a fuggire furono arrestati e poi processati. Oltre 2000 anni di condanna ai ferri, parecchie condanne all’esilio e a morte. Ricordiamo che l’anno dopo il 1849 per la difesa di Roma accorse Giovanni Nicotera e per la difesa di Venezia il generale Francesco Matarazzo. Quattro anni dopo la rivoluzione del 1848, e precisamente nell’autunno del 1852, il re fece un viaggio in Calabria. Giunse la sera del 13 settembre a Tiriolo e prese alloggio nel convento dei Cappuccini dove si fermò un giorno e mezzo. Il 15 settembre era l’onomastico della regina, che fu festeggiato con una messa solenne celebrata dal vescovo. Il re, acclamato dalla popolazione, fece grazia ad alcuni condannati, distribuì elemosine e, prendendo commiato verso mezzogiorno dai frati cappuccini, consegnò al guardiano 100 ducati per i bisogni del convento. Per inciso, sottolineiamo che invece i Domenicani di Nicastro furono antiborbonici e il loro convento, ove si tenevano riunioni di cospiratori liberali, fu più volte perquisito dalla polizia.