Il tesoro di Sant'Eufemia

8 aprile 1865: contrada Elemosina vicino a S. Eufemia Vetere. Nell’oliveto di proprietà del sig. Pasquale Francica di Monteleone da un solco profondo un paio di metri, scavato dalla pioggia torrenziale che aveva imperversato tutta la notte, emerge un vero e proprio tesoro. Le versioni sulle modalità del ritrovamento non sono concordi. La più attendibile ha per protagonista scopritore un tal Giovanni Giudice, soprannominato Qualaro, il quale la mattina di quell’8 aprile, mentre si aggirava su quel fondo, vide casualmente in un profondo solco scavato dalla pioggia diversi oggetti scintillanti. Li raccolse e li portò a due compaesani, Francesco Montesanti e Antonio Zarra. I due si fecero accompagnare dal Giudice sul luogo del ritrovamento e raccolsero altri oggetti, alcuni dei quali contenuti in un vaso, sparsi tra frammenti di ossa umane e pezzi di ceramica. Il tutto fu poi consegnato al custode del fondo, il quale, dopo aver a sua volta raccolto altri pezzi d’oro scavando intorno al fosso, ne ridusse gran parte in frantumi per venderla ad un orefice senza incorrere in eventuali sanzioni previste dalla legge. Passarono due mesi e il proprietario del fondo Pasquale Francica venne a sapere dell’eccezionale ritrovamento. Cercò, quindi, in tutti i modi di recuperare il tesoro, ma riuscì ad avere intatti solo pochi pezzi in quanto gli altri erano già stati fusi.

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Tesoro di Sant'Eufemia: vista complessiva

Una versione un po’ diversa sul ritrovamento è quella fornita da Antonio Francica, erede di Pasquale, il quale nel 1885 pubblicò un opuscolo sul tesoro per illustrare il valore del prezioso materiale e avere più possibilità di venderlo con un ottimo guadagno. Allegò alla sua relazione le dichiarazioni dei sindaci di Nicastro, Sambiase e Gizzeria, la relazione presentata da Pasquale Giuliani all’Accademia delle Scienze di Catanzaro e la pagina 98 del terzo volume de La Grande Grece di François Lenormant.

Antonio Francica scrive che le piogge cadute abbondanti nella notte tra il 7 e l’8 aprile 1865 avevano messo allo scoperto, a più di due metri dalla superficie, un antico sepolcro da cui fuoriuscivano sparsi qua e là diversi oggetti d’oro. Due contadini, transitando per caso di lì, avvistarono il ricco tesoro e, “non comprendendo il gran valore degli oggetti rinvenuti, raccolsero quanto più poterono di quel metallo sparso e lo portarono ad una guardia campestre del sig. Pasquale Francica. Il guardia campestre, se non seppe valutare il pregio artistico di ciò che quei contadini gli avevano portato, ne comprese però il valore materiale, vedendolo d’oro”. Perciò si fece condurre sul luogo del ritrovamento e “gli fu agevole, scavando sui lati del fosso, rinvenirne di molti altri”. Nessuno seppe mai quanti oggetti fossero stati trovati anche perché “il guardia campestre del sig. Francica, sapendo di commettere un furto, ebbe cura di nascondere gli oggetti rinvenuti ed ignorandone il gran valore artistico li spezzò, li ridusse ad un’informe massa e li vendé al prezzo di semplice oro. In tal modo l’ignoranza di un villano fece finire nel crogiuolo dell’orefice opere d’arte greca della più fine fattura”.

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Tesoro di Sant'Eufemia: diadema

Qualche elemento in più si trova nella testimonianza rilasciata il 13 dicembre 1884 dal sindaco di Gizzeria Domenico Vecchi. Specificava, infatti, che la località del ritrovamento era “un oliveto del fondo Elemosina, detto Olivarelle o Valle […] sito quasi attaccato all’abitato di S. Eufemia del Golfo, villaggio che fa parte di questo comune”. Aggiungeva che si trattava di un “sepolcro che si ritiene essere quello di Agatocle, Tiranno di Siracusa, ove era deposta tutta l’armatura del detto Tiranno”. Proseguiva dicendo che lo scopritore Giovanni Giudice fu Domenico, alias Qualaro, che “era un cretino”, “raccolse parte di quegli avanzi facendone mostra ai suoi concittadini Zarra Antonio fu Bartolo e Montesanti Francesco alias Bianco”. Costoro riuscirono a farsi consegnare il tesoro da quel povero scemo del villaggio in cambio di “un ottavo di fichi secchi” e andarono sul posto a recuperare “gli avanzi che il detto Giudice aveva lasciato”. Dopo pochi mesi il sig. Francica, venuto a conoscenza del tutto, riuscì “dietro non poca difficoltà”, a comprare “a prezzi esagerati quegli oggetti che il Zarra e il Montesanti ancora possedevano”.

Il sindaco di Nicastro, cav. Materasso, riferendosi anche lui nella sua testimonianza del 12 dicembre 1884 ad “un sepolcro che si ritenne quello di Agatocle Tiranno di Siracusa, ov’era deposta tutta l’armatura del detto Tiranno”, aggiungeva che il proprietario del fondo sig, Francica poté recuperare i seguenti oggetti: “Quattro strisce in oro, facenti parte di una corazza, ritte a metà e da una parte tagliate; quattro strisce d’oro più piccole e molto più sottili; un triangolo in oro con lavori di filigrana che potrebbe essere servito o di frontale al diadema, o di fermaglio alla cintura che sosteneva la spada; una catena in filigrana, di oro, con appeso un medaglione anche in oro, sul quale si scorgono in rilievo diversi emblemi della città di Siracusa; un medaglione in oro con emblemi di detta città; altri piccoli oggetti tutti in oro; delle monete in bronzo sul diritto delle quali si vede la testa di Diana con le frecce nella treccia dei capelli, e nel rovescio il fulmine alato con lo scritto intorno in lettere greche ‘Agatocle Basileo’”. Identica dichiarazione, con uguale elenco dei gioielli, è quella rilasciata dal sindaco di Sambiase Domenico Paladino il 15 dicembre 1884.

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Tesoro di Sant'Eufemia: pendaglio

A sua volta Pasquale Giuliani, autore delle Memorie storiche della città di Nicastro, riferisce una versione leggermente diversa del ritrovamento del tesoro. Dice testualmente che l’8 aprile 1865 “due poveri contadini di Sambiase […] s’immisero in un fossato scavato dalle acque piovane nell’oliveto del fondo Elemosina del sig. Pasquale Francica […] e, mentre erano intenti alla loro opera, si avvidero che un orcio di mezzana grandezza rimaneva incastrato in un lato del fossato nella profondità di circa due metri dal sovrapposto suolo. Ne spezzarono la parete, che offrivasi ai loro sguardi, e ne estrassero molta quantità di monete e medaglie quasi tutte di bronzo, moltissimi altri oggetti preziosi di rimota antichità”. Continua dicendo di avere personalmente visto una delle monete di bronzo “avente da una parte un fulmine e dall’altra la leggenda ‘Agatocle Basileo’ con testa muliebre di eccellente profilo”. Aggiunge di avere osservato fra i diversi pezzi “da sei o sette lamine di oro purissimo”, “due o tre ciondoletti”, “una catenella a filigrana”, “una specie di orecchino”. Conclude dicendo che gli era stato riferito anche il rinvenimento di “una elsa di spada di ammirevole lavoro con degli scavi corrispondenti a gemme che dovea contenere”.

Al di là di queste testimonianze riprese anche dal Lenormant, è certo che quello che rimase del tesoro di S. Eufemia fu comprato dall’antiquario romano Vincenzo Vitaliani il quale nel 1896 ne vendette una parte al British Museum. Non ne faceva parte quello che è ritenuto il pezzo più importante e cioè un anello con scarabeo che finì nella collezione del conte Michele Tyszkiewicz e poi nel 1895 fu anch’esso acquistato dal British Museum. Secondo Dyfri Williams, responsabile della sezione greco-romana del British, il tesoro di S. Eufemia è “probabilmente il più grande e importante ritrovamento di oreficeria greca della Magna Grecia”.

Come è ormai accertato dagli studi il tesoro, costituito da vari gioielli (un diadema, parti di due o tre collane, terminali di un paio di orecchini a spirale, pezzi di alcune cinture, un anello e frammenti di altri ornamenti appartenenti ad una o più donne ricche) e da un numero imprecisato di monete bronzee sarebbe stato il corredo di una sepoltura. Tutti i pezzi sarebbero stati realizzati dalla stessa bottega di quel maestro-artigiano che viene chiamato ormai nei cataloghi il “Maestro di S. Eufemia”, il quale li avrebbe realizzati tra il 330 e il 300 a. C.