La Battaglia di Maida

Gli inglesi l’hanno chiamata battaglia di Maida, i francesi battaglia di Sant’Eufemia. Fu combattuta nella piana lametina esattamente 200 anni fa il 4 luglio 1806. Non fu un grande evento bellico paragonabile a quelli contemporanei del periodo napoleonico come Marengo (14 giugno 1800), Ulm (20 ottobre 1805) e Austerlitz (2 dicembre 1805). Però non può essere neppure considerata come un semplice avvenimento militare casuale e sporadico, di pertinenza esclusivamente locale, da relegare in una nota a piè pagina, come fa, a proposito dell’occupazione francese della Calabria, Frederick C. Schneid nel suo libro ‘Le campagne napoleoniche d’Italia: 1805-1815’. Al contrario, la battaglia di Maida va inserita a pieno titolo nelle strategie politico-militari europee del periodo napoleonico e, in modo particolare, dello scontro franco-britannico nell’area del Mediterraneo. E’ stato un evento bellico che ha coinvolto due delle maggiori potenze dell’ottocento. L’Inghilterra con la sua marina controllava la Sicilia, la Sardegna e Malta. Anche per la Francia di Napoleone era importante l’area dell’Italia meridionale e della Sicilia in quanto serviva come ponte per la progettata penetrazione nei Balcani e nell’Egeo.

Lamezia Terme

Maida in London

Questo il significato della battaglia. Maida fu un evento importante, soprattutto per le conseguenze che ebbe nel caratterizzare i successivi lunghi anni di occupazione della Calabria da parte delle truppe napoleoniche, il cosiddetto decennio francese, iniziato il 1806 e terminato nel 1815 con la fucilazione a Pizzo di Gioacchino Murat. Ecco perché il nostro convegno ha per tema “Il fronte mediterraneo nell’età napoleonica: la Calabria 1792-1815 e la battaglia di Maida”. Il fronte mediterraneo fu uno degli epicentri dello scontro tra Francia rivoluzionaria e Inghilterra e vide svolgersi alcune delle battaglie che segnarono le sorti dell’incontro o misero in luce il dramma di una rivoluzione che vide schierarsi contro i suoi valori e le sue bandiere intere popolazioni accomunate dal rifiuto di ricevere la libertà sulla punta delle baionette. Ciò all’interno delle vicende politiche nelle quali la libertà era vista come alibi per giustificare un’inaccettabile conquista da parte delle armate francesi che andavano perciò respinte e cacciate con ogni mezzo. La Calabria fu protagonista di una guerriglia feroce contro i francesi di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat, incarnando perfettamente la tragedia di quell’epoca tra furori rivoluzionari e l’ira della controrivoluzione. I francesi, più che truppa di liberazione si dimostrarono truppa di occupazione. Saccheggi, incendi, requisizioni, stupri, profanazioni delle chiese ed altri mezzi brutali costituivano dei veri e propri insulti per la popolazione calabrese che scelse la strada del brigantaggio.

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L' insorgenza antifrancese prese l’avvio con la rivolta di Soveria Mannelli (marzo 1806) e, dopo la battaglia di Maida (4 luglio 1806) e il lungo assedio di Amantea (settembre 1806-febbraio 1807), si concluse con la tragica fine di Murat. Nel febbraio 1806 le truppe francesi guidate da Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, invasero l’Italia meridionale. Un’intera colonna, guidata dal generale Reynier, penetrò in Calabria travolgendo le resistenze borboniche. Entro il 20 marzo tutta la regione era in mano ai francesi. Per ben 9 anni, e cioè fino alla fucilazione di Murat che ebbe luogo il 13 ottobre 1815, la piana di S. Eufemia e i paesi montani che le fanno corona fino alle propaggini silane furono teatro di scontri, rivolte e repressioni. Da un lato le truppe francesi con tutti i disagi arrecati alle popolazioni a causa degli alloggi e dei vettovagliamenti, dall’altro le bande dei ribelli e dei briganti, sostenute dai Borboni e dagli Inglesi. Il 30 giugno 1806 gli inglesi sbarcarono nel golfo di S. Eufemia circa 5000 fanti agli ordini del generale Stuart, attrezzate di artiglieria, accampandosi nei pressi del Bastione dei Cavalieri di Malta che allora era quasi sulla spiaggia. Intorno al fortilizio, scelto come centro delle operazioni, fu scavata una trincea semicircolare, rafforzata con sacchi di terra.

Intanto le truppe francesi, guidate dal generale Reynier, per fronteggiare gli avversari si concentravano sulle alture di Maida, sicura roccaforte giacobina e antiborbonica. Il fatto che il corpo di sbarco inglese, oltre ad essere piccolo (5000 uomini), non avesse cavalleria, equipaggi di ricambio per le artiglierie e viveri di riserva, conferma che il piano inglese non prevedeva una lunga battaglia e una permanenza prolungata sul territorio. Il 2 luglio Stuart emise un proclama rivolto ai calabresi, che fu diffuso rapidamente dappertutto. In esso si diceva che gli inglesi erano venuti a liberarli dall’oppressione dei francesi, dai loro insulti, dai loro oltraggi alle donne. Si faceva leva sul loro orgoglio, invitandoli ad armarsi e a unirsi per scacciare l’usurpatore e restituire il trono a re Ferdinando. Il 3 luglio a S. Eufemia si aggiunse agli inglesi un grosso contingente di volontari calabresi, siciliani e napoletani guidato dal colon¬nello Filippo Cancellieri. All’alba del 4 luglio iniziarono le operazioni strategiche con lo schieramento dei due eserciti che contavano insieme circa 11mila uomini. Stuart dispose i suoi soldati su due file parallele, la tipica formazione adottata in battaglia dalla fanteria inglese, tenendo come riserva un reggimento e puntando anche ad interrompere la via di comunicazione del nemico per Monteleone. Inoltre fornì gli ordini per la difesa della testa di sbarco, da utilizzare in caso di sconfitta e di una immediata ritirata, affidando il compito al capitano Fisher del reggimento svizzero Watteville. Nel contempo ordinò al giovane tenente del genio navale Charles Boothby di rimanere alla testa di sbarco. Boothby si sistemò sulla cima del bastione dei Cavalieri di Malta da dove poteva assistere alle fasi della battaglia e dirigere i suoi uomini che difendevano la testa di sbarco.

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A sua volta il Reynier, che si era posizionato sulla sponda dell’Amato perché il fiume costituiva una protezione naturale contro le migliaia di briganti che infestavano il bosco circostante, schierò le sue truppe mettendo al centro il generale Franceschi-Delonne con 300 cacciatori a cavallo e i sei pezzi di artiglieria, a destra il generale Digonnet con 1250 uomini del 23° reggimento di fanteria leggera, a sinistra il generale Compére con il 1° reggimento leggero e con il 42° di linea che contavano complessivamente 2400 uomini. In seconda fila agivano circa 1500 soldati svizzeri e polacchi comandati dal generale Peyri. Alle 8,30 del 4 luglio Reynier fu il primo ad iniziare l’offensiva contro gli inglesi. Secondo il metodo classico, sperimentato in altre battaglie dai francesi, attaccò per primo il generale Compére con la sua colonna d’assalto contro l’ala destra inglese. Ma l’assalto non fu efficace perché mancò un adeguato fuoco di artiglieria che non poteva essere garantito dai soli 6 cannoni contro i 16 degli inglesi. Proprio la mancanza di un’adeguata artiglieria fu, in questo caso, una delle deficienze accusate dall’esercito francese. Reynier aveva alcuni mezzi corazzati leggeri, mentre gli inglesi si avvalevano di una migliore e più potente artiglieria. In questo tipo di battaglia fino a quel giorno i francesi avevano sempre vinto. Ma quel 4 luglio fu una disfatta. Tutto finì in pochissimo tempo. Poco dopo le 10 i francesi, ormai in rotta totale, lasciavano 1100 prigionieri e 300 feriti in mano inglese, oltre che bagagli, viveri e munizioni.

Richard Hopton, nel suo saggio intitolato 1806 The battle of Maida fifteen minutes of glory (Pen & Sword, London 2002) giustamente, inquadra la battaglia di Maida all’interno dei due avvenimenti più importanti relativi alle terza Coalizione: la vittoria di Nelson a Trafalgar, che pose fine a qualsiasi pretesa francese di poter sfidare gli inglesi sul mare, e Austerlitz che stroncò qualsiasi speranza per gli eserciti della Coalizione di annullare l’ambizione di Napoleone nell’Europa continentale. Infatti, - sostiene Hopton – malgrado le schiaccianti vittorie di Napoleone a Ulm e Austerlitz, per gli alleati “ci fu un barlume di luce in tutte quelle tenebre: la battaglia di Maida. La sola vittoria conclusiva ottenuta dagli eserciti della terza Coalizione […]. Fu una piccola battaglia, con 11.000 combattenti in tutto, combattuta su una spiaggia lontana dal centro dell’Europa. Essa non può essere vista, in senso stretto, come parte della storia della terza Coalizione che era stata dichiarata morta 6 mesi prima con la pace di Presburg. Ma Maida era un figlio di questa alleanza, sebbene un figlio postumo”. Nel valutare la battaglia, Hopton riporta due commenti. Il primo è quello di William Windham, segretario alla guerra, il quale, nel ricevere la notizia della vittoria inglese, asserì, certamente esagerando, che essa aveva la stessa grandezza di Poitiers, Crecy e Agincourt negli annali della storia militare britannica. Il secondo giudizio è quello del TIMES il quale forse era più vicino alla verità quando pubblicò la notizia sotto il titolo “Glorious victory”. La battaglia di Maida, sottovalutata dai “grognards” napoleonici che quasi con disprezzo hanno parlato di “l’affaire de Sainte Euphemia” come “la battaille d’un quart d’heure”, non merita – conclude Hopton – l’oblio storico. Essa, infatti, mostrò come sconfiggere i potenti francesi e, come tale, presagì i trionfi della guerra peninsulare. A sostegno della sua tesi Hopton riporta l’osservazione di Charles Oman il quale afferma: “[…] la poco ricordata calabrese battaglia di Maida fu un giorno che fece epoca nella storia militare britannica. Sulla pianura sabbiosa dell’Amato 5000 fanti in linea ricevettero l’urto di 6000 in colonna e inflissero loro una delle più grandi sconfitte”.

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L' importanza della battaglia di Maida nella storia militare è stata ben messa in evidenza da Piero Pieri nella sua Storia militare del Risorgimento (Einaudi, Torino 1962, p. 14). Secondo Pieri la battaglia di Maida segnò “il trionfo dell’azione tattica distruttiva dell’arma da fuoco contro l’azione tattica risolutiva dell’arma bianca. Gli inglesi affrontarono la furia francese su due righe. I francesi, in colonne di compagnia, attaccarono a cento metri di distanza, percorsero correndo più di quattro quinti della zona di morte, sotto il fuoco nemico, limitandosi via via a serrare le file; a quindici metri inastarono le baionette, ma proprio ora li investì una scarica particolarmente micidiale; e retrocessero in disordine, lasciando il terreno sparso di morti e feriti”. Il campo di battaglia per lungo tempo offrì uno spettacolo che incuteva pietà e dolore. Centinaia di briganti e sbandati accorsero per derubare i cadaveri e altri si organizzavano per saccheggiare la città di Maida che era stata ospitale con i francesi. La sera stessa del 4 luglio Stuart diede le disposizioni per la sepoltura dei cadaveri in grandi fosse, soprattutto nella località denominata Balzano. Molti feriti nascosti nei cespugli e nei boschi furono poi curati a Maida da 5 medici maidesi di cui ci sono stati tramandati i nomi: Cefaly, Marasco, Partitario, Scrugli e Valente.

Dal quartiere generale di Maida presso il palazzo Vitale, Stuart emetteva un proclama di trionfo rivolto ancora una volta ai calabresi liberati dalla tirannia dei francesi. Prometteva il perdono ai filofrancesi che si arrendevano e invitava a trattare bene i prigionieri. Per ogni soldato prigioniero condotto all’armata britannica sano e salvo prometteva 6 ducati di ricompensa e ben 20 per ogni ufficiale. La vittoria inglese, in effetti, fu il segnale della generale rivolta anti¬francese. Subito dopo la battaglia, le campane delle chiese suonarono a lungo e i falò fiammeggiarono sulle colline, diffondendo la notizia da un villaggio all’altro. Il successo degli inglesi funzionò da incoraggiamento per la rivolta dei calabresi, che presto divenne generalizzata in ogni angolo della regione. A Nicastro la locale guarnigione francese fu costretta ad abbandonare precipitosamente la città in rivolta, mentre si innalzavano le bandiere e i vessilli borbonici e alcuni gruppi di rivoltosi correvano all’ospedale presso il convento di S. Domenico, massacrando tutti i soldati che vi erano ricoverati. Si legge in un manoscritto del 1812 conservato presso l’archivio privato Fabiani di Maida: “Rimane la nostra provincia in una terribile anarchia, […] ed i briganti, che erano la maggior parte della popolazione, saccheggiavano e uccidevano impunemente. A pena ci potevamo garantire nel proprio paese; ma le nostre sostanze erano in preda di tali scellerati. Tutto era terrore e spavento. Non si poteva uscire fuori dall’abitato, le campagne devastate e il bestiame distrutto…”. Da alcune fonti locali come i “Conti dell’Intendenza” del comune di Maida e dai racconti di testimoni oculari come Fabiani e Majorana risulta che la popolazione, pur non partecipando direttamente allo scontro, fu coinvolta sia prima che dopo. Prima mettendo a disposizione dei francesi rifornimenti di ogni tipo, poi, dopo la battaglia, partecipando alla sepoltura dei morti e al soccorso dei feriti dell’uno e dell’altro fronte. L'entità della sconfitta francese traspare da quanto scriveva il tenente colonnello Lejeun (fatto prigioniero dagli inglesi) al generale Verdier che si trovava a Cosenza: “Generale, io prigioniero vi partecipo con dolore che il nostro esercito, disfatto in Maida il giorno 4 di luglio, ora si affanna nella ritirata verso la marina di levante, investito dalle popolazioni favorite dalle milizie anglo-¬sicule, superbe e insultanti. Una schiera poderosa, una massa immensa di volontari sono sul punto di circondarlo”.

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A Reynier, dopo l’inattesa sconfitta, fu rimproverato di aver sbagliato tattica. In particolare il generale Berthier sostenne che sarebbe stato meglio costringere Stuart nella pianura paludosa dove la malaria, con il caldo soffocante di quei primi giorni di luglio, avrebbe presto decimato le sue truppe. Oppure Reynier avrebbe dovuto attirare gli inglesi nell’entroterra, dando l’apparenza di rifiutare la battaglia in campo aperto. In effetti, Reynier non aveva avuto dubbi sul piano da attuare. Il suo obiettivo, fin da subito, era quella di attaccare immediatamente gli inglesi: Il faut jeter les Anglais à la mer. Del resto, sia da Napoleone che da Giuseppe Bonaparte era stato considerato oltremodo positivo il fatto che gli inglesi fossero sbarcati a S. Eufemia: Rien n’est plus heureux que le debarquement des Anglais. Proprio per questo Reynier ritenne opportuno non procrastinare l’attacco, anche perché durante la notte erano arrivati i rinforzi sperati con il 42° reggimento del generale Compére. Lanciando un attacco energico e improvviso, Reynier era convinto di sconfiggere gli inglesi costringendoli a reimbarcarsi. Era troppo sicuro di sé e non aveva alcun dubbio sulla vittoria. Era convinto che gli inglesi non avessero la forza di resistere all’urto dei suoi esperti reggimenti che avevano conquistato con estrema facilità il Regno di Napoli e avevano trionfato nelle altre campagne militari in Italia. Per i francesi la battaglia di Maida rappresentava l’opportunità di punire definitivamente gli inglesi per la loro temerarietà, ‘buttandoli a mare’ e – come ha scritto Hopton – aggiungere sir John Stuart alla lunga lista di generali che avevano tentato, ma avevano fallito, nello sfidare la potenza della Francia sul continente europeo.

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Per l’Inghilterra, invece, il piccolo esercito di Stuart, giunto a S. Eufemia dalla Sicilia, rappresentava in questa parte remota dell’Italia meridionale l’ultima speranza di un orgoglio che poteva essere salvato dal disastro definitivo. Questo piccolo esercito rappresentava la speranza di poter mettere qualche limite alle ambizioni continentali di Napoleone. Rappresentava anche – come ipotizza Hopton – la possibilità di mostrare che gli inglesi non erano soltanto una nazione di marinai e che avevano un esercito di terra degno di questo nome. Ecco perché Stuart poté vantarsi di una vittoria autentica: in due ore aveva eliminato oltre 3000 francesi, mentre tra le sue truppe i morti erano stati solo 45 e i feriti 283. Perché gli inglesi rinunziarono a far leva sulla vittoria? Ci vorrebbe un’altra intera relazione per approfondire i motivi per cui gli inglesi, dopo la vittoria, anziché sfruttarla, rinunziarono all’inseguimento dei francesi e si ritirarono sulle navi per far ritorno in Sicilia. La direzione della politica estera britannica, dopo la caduta del ministero Pitt, era stata assunta da Charles Fox il quale mirava a raggiungere un’intesa con Napoleone. Il proseguimento dell’offensiva inglese verso Napoli avrebbe ostacolato le trattative diplomatiche già avviate dal Talleyrand per il riconoscimento francese del Regno di Napoli. Proprio per questo l’ammiraglio Sidney Smith e il generale Stuart, dopo aver sospinto i calabresi ad inseguire i francesi, li abbandonarono e si reimbarcarono verso le basi siciliane. La notizia della vittoria di Maida fu accolta in Inghilterra con grande soddisfazione e sui vincitori piovvero medaglie e riconoscimenti. Le due Camere votarono ordini del giorno di compiacimento e di elogio. Nei discorsi di ministri e deputati il nome di Maida fu associato a quello delle più famose battaglie della storia nazionale inglese. Giorgio III conferì a Stuart il titolo di duca di Maida ed ai principali comandanti furono concesse speciali decorazioni. A conferma del grande entusiasmo per quella vittoria e dell’importanza assegnatale, il nome di Maida fu poi dato a due strade di Londra: la Maida Vale (tra Kilburn Higt Road e Edgware Road) e la Maida Avenue. E fa effetto per i turisti calabresi a Londra vedere il nome di Maida dato ad una delle stazioni della metropolitana londinese che verso la fine della corsa sotterranea ha un’altra stazione intitolata a Waterloo. Maida e Waterloo, entrambi luoghi di battaglie del periodo napoleonico, che hanno rappresentato la gloria dell’esercito inglese. Sulla disastrosa ritirata francese dopo la battaglia di Maida vale la pena riportare quanto scriveva il Courier in una lettera del 2 ottobre 1806: “Gli inglesi ce le hanno suonate ed a buon mercato perché credo che da parte loro non abbiano perso neanche una cinquantina di uomini. E’ stato il 4 luglio scorso. Il combattimento durò 10 minuti e in 10 minuti perdemmo un terzo dei nostri uomini (circa 2000), la nostra artiglieria, i nostri effetti, i magazzini, la cassa, le intendenze, in poche parole tutto quello che si può perdere. La Calabria intera si sollevò contro di noi con le stesse armi che noi molto imprudentemente avevamo dato alla sua gente. Durante i trenta giorni della ritirata, attraverso arenili bruciati, circondati da nugoli di montanari feroci, bene armati, buoni tiratori, neanche può immaginarsi quello che abbiamo potuto soffrire; vivendo sulla punta della spada, disputando a colpi di fucile qualche pozza d’acqua melmosa, vedendo a soli cento passi da noi massacrare i nostri feriti, i nostri malati, tutti coloro che per il sonno, la fatica, la stanchezza, erano forzati a restare nelle retroguardie. Le munizioni ci mancavano e per questa ragione era facile prevedere che saremmo tutti morti sotto il fuoco dei contadini, quando non avremmo più avuto la possibilità di respingerli. […] Infine, i nostri soldati si rivoltarono e cominciarono a sparare sui loro ufficiali. L’abitudine al saccheggio, unico mezzo di sussistenza, aveva distrutto qualsiasi forma di disciplina”.

Per una visione completa del decennio francese nella piana lametina si rinvia a V. VILLELLA, I briganti del Reventino. Panedigrano e le insorgenze antifrancesi in Calabria (1799-1814), Cittacalabria, Soveria Mannelli 2006.